Pirandello e
Etica e
narrazione sembrano, a prima vista, due termini antitetici: l’una evoca il rigore del ragionamento,
l’altra la libertà dell’invenzione,
talora la fantasia priva di regole. In realtà, l’antinomia apparente ha bisogno
di essere ripensata. Quando parliamo di etica dovremmo presupporre almeno due modelli: il primo
guarda all’etica come a una scienza ‘more geometrico demonstrata’, secondo
Per questo
secondo modello la narrazione è importante, anzi fondamentale. “Il racconto mai eticamente neutro – ci ricorda Paul Ricoeur – è il primo laboratorio del giudizio
morale”.[1]
Solo una
storia può rivelare il genuino significato di un’azione: conoscere l’intera
vicenda, la trama complessiva, ci consente di allargare la nostra prospettiva,
di evitare semplificazioni e fraintendimenti. In effetti, quando formuliamo un
giudizio morale ci occupiamo di azioni il cui significato può essere compreso
solo entro un contesto. Ogni azione è, a suo modo, un testo da leggere e da
interpretare; per intenderne il senso occorre considerare i molti elementi che
la compongono: l’oggetto che la costituisce, le intenzioni che la animano, le
circostanze in cui si svolge, i fini cui tende. Calare un gesto dentro una
storia ci porta a interrogarci non solo sulle motivazioni consapevoli e intenzionali di un certo modo di agire ma anche,
e soprattutto, sulle componenti emotive, sulle dinamiche affettive, sui
conflitti di valori, sui rapporti sociali in cui si inscrive.
La
narrazione consente di accostarsi alla vita di un altro con un interesse non
superficiale ma attivando la comprensione e la partecipazione: ci insegna a
considerarlo come un soggetto simile a noi, dotato dei sentimenti che anche noi
proviamo, rendendo tuttavia al tempo stesso visibili i limiti che si incontrano
per accedere alla conoscenza del suo mondo.
Il romanzo ci appare –secondo una suggestione
di Milan Kundera -come “un territorio in cui nessuno possiede la verità,né Anna
né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto di essere capiti, Karenin non meno di
Anna”. [2]
Attraverso
la narrazione siamo in grado di penetrare in mondi interiori diversi dal
nostro, di seguire una vita in tutte le sue vicissitudini, di interessarci
all’altrui destino ‘come se’ fosse il nostro.
Per
acquisire tale sensibilità è
fondamentale l’immaginazione, quella
capacità che ci consente di immedesimarci in un altro, di capire la sua storia,
di intendere le sue emozioni, i suoi desideri, le sue speranze, sollevandoci di
fatto dalle circostanze in cui siamo immersi e che limitano il nostro orizzonte
– il che non comporta tuttavia in alcun
modo una mancanza di senso critico.
L’immaginazione
narrativa - Martha Nussbaum ha scritto
pagine assai penetranti al riguardo - è
uno strumento necessario per riflettere su realtà differenti e abituarci a
guardare l’altro in maniera empatica, per avvicinarci a lui cercando di
comprendere il suo mondo interiore pur restando noi stessi, anzi costruendo
meglio la nostra identità. Viene così alimentata quella che i classici
chiamavano la ‘curiositas’, grazie alla quale ogni esperienza, ogni persona,
ogni stagione della vita divengono una possibile fonte di apprendimento. Nello
stesso tempo si accresce la capacità di interpretare il pluralismo della
società in cui viviamo e di entrare in sintonia colle idee altrui, con costumi,
pratiche, abitudini differenti dai nostri.[3]
La
valorizzazione dell’arte narrativa si spiega con un esplicito richiamo
all’insegnamento aristotelico che la considera
un’attività teoretica più elevata
rispetto alla storia la quale ci mostra gli eventi realmente accaduti – il
‘vero’ -, mentre l’opera narrativa ci mostra quali fatti possano avvenire – il
‘verosimile’. Mentre dunque la storia descrive ciò che è avvenuto, la
letteratura mette in scena il possibile, sollecitando chi legge a interrogarsi
su se stesso, a mettersi nei panni dei diversi personaggi, a riflettere sulle
loro vicende. In tal modo si innesca una
fervida attività immaginativa che riveste grande importanza per il pensiero
etico.
L’immaginazione
e l’arte di narrare adempiono - è la tesi della
Nussbaum - ad una duplice funzione: da un lato, possono aiutarci a
ritrovare i segni comuni di un’umanità condivisa, contrastando la nostra
tendenza a negare le somiglianze; dall’altro, manifestano l’estrema complessità
del nostro essere ‘persone’, uniche e irripetibili, rendendoci più consapevoli delle differenze qualitative che
esistono da soggetto a soggetto. In particolare, ci consentono di comprendere
la ‘forza delle circostanze’, di scoprire come
esse modellino e orientino la vita di ciascuno, dando forma non solo
alle sue possibilità di azione, ma anche
alle sue aspirazioni, speranze e paure.
La capacità di immaginare in maniera simpatetica consente pertanto di ridurre
la lontananza e l’estraneità, di capire le scelte compiute dagli altri e il
fatto che essi, pur nella loro irriducibile diversità, condividano i nostri
stessi problemi e siano dotati delle stesse potenzialità.
Per questo
la letteratura, sviluppando tali
capacità, stimola la nostra attitudine alla comprensione e favorisce
l’immedesimazione e il coinvolgimento empatico per l’altrui destino –
inclinazioni, queste, che appaiono estremamente importanti non solo sul piano
della crescita e dell’arricchimento personale, ma anche su quello morale,
civile e politico. Viene favorito infatti un approccio che è sì contestuale – attento
cioè alla situazione del soggetto, alle sue concrete determinazioni storiche,esistenziali, sociali – ma non ‘relativistico’, nel senso che riconosce
tratti, caratteri, istanze che trascendono i confini temporali, spaziali,
etnici e acquistano un significato universale.
Se la narrazione ha tale funzione esplorativa e filosofica, accende
nuova luce sugli enigmi dell’esistenza, crea universi di senso in cui sorgono
inattese rappresentazioni di sé e del mondo.
“Approdiamo
alla filosofia – ha scritto Nozick ne La vita pensata – perché vogliamo
riflettere sulle cose e la filosofia è solo un modo per farlo; non è detto che
debba escludere le vie seguite dai saggisti, dai poeti, dai romanzieri o dai
creatori di altre costruzioni simboliche, vie che aspirano alla verità in
maniera diversa, e ad altre cose che alla verità”.[4]
***
In questo quadro appare complessivamente di
grande rilievo per la bioetica la via tracciata da Luigi Pirandello che nella sua opera ha saputo affrontare non
solo i temi esistenziali innescati dal
rapporto problematico tra scienza ed etica, ma ha precorso i dilemmi
morali posti oggi alla nostra coscienza dalle sfide delle
scienze della vita: la medicina, la biologia, l’ecologia, l’etologia.
Negli
ultimi decenni, tali scienze hanno compiuto progressi grandiosi e le
possibilità da esse aperte hanno sollevato quesiti senza precedenti, relativi
non solo alla pratica medica, alla genetica, alla sperimentazione clinica, ma
anche alla vita dell’ecosistema e ai problemi di gestione e tutela delle altre
specie. Gli studi di etica applicata hanno dato un decisivo impulso al
confronto critico tra scienziati e filosofi, contribuendo sia a rimuovere le
barriere che separavano settori specialistici della conoscenza, sia a mostrare
la pertinenza della riflessione filosofica in ambiti ad essa apparentemente
estranei. L’esigenza di rivisitare e di ridefinire taluni concetti centrale
dell’etica ( vita, morte,
esistenza, persona ) ha preso forma all’interno di un processo che ha visto la
filosofia morale impegnata a promuovere una riflessione multidisciplinare sulle
implicazioni concettuali e normative delle scienze biologiche. [5]
Il contributo di Pirandello – è bene
sottolinearlo - riguarda non una bioetica
‘edificante’ – quella che, impegnata a risolvere i problemi fornendo regole e principi validi per tutti,
finisce per approdare ad una sorta di ‘filosofia delle ricette’ – ma
una bioetica ‘critica’ che è perennemente alla ricerca dei problemi,
per riconoscerli e sviscerarli, assumendo pienamente la
complessità dell’esistenza. La lettura delle sue opere costituisce in tal senso
un efficace antidoto contro una tradizionale impostazione teorica
universalizzante, impersonale, esteriormente prescrittiva.
Pirandello
ci invita infatti ad un’etica di prima persona, considerata cioè dal punto di
vista del soggetto che è autore e attore della sua vita, anziché dal punto di
vista esterno proprio di un osservatore imparziale che è proprio dell’etica
della terza persona.
“Si nasce
alla vita in tanti modi, caro signore – si legge ne La
tragedia di un personaggio – e lei sa bene che la natura si serve dello
strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi
nasce mercè questa attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è
ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal
grembo di una donna.” [6]
Qualsiasi psicologia morale è incompleta se
lascia da parte i modi in cui l’immaginazione entra negli atti, nei pensieri e
nei discorsi e ci aiuta a comprenderli. Pirandello ci insegna appunto a
decifrare emozioni e desideri, ad ascoltarli e ad interpretarli, a discernere
il senso degli affetti che ci muovono, specie in quelle svolte della vita, in
quei momenti di crisi in cui l’uomo incontra se stesso.
Quelli che vengono tracciati - penso in particolare alle Novelle
per un anno - sono dunque percorsi
di grandissimo interesse per cogliere momenti di illuminante chiarezza in
relazione a questioni cruciali che la trattatistica bioetica rende assai spesso
fredde e distanti. Temi di forte respiro etico – la nascita, la malattia, la
morte -, dilemmi di grande portata che lacerano la medicina e inquietano
angosciosamente la nostra coscienza: moltissimi sono i soggetti leggibili in
chiave bioetica.
Ne La morte addosso l’anonimo avventore di
un caffè notturno, condannato da un male incurabile, guarda alle cose e alla
vita degli altri con un’attenzione estraniata. Grazie all’immaginazione può
attaccarsi alla vita altrui, come un rampicante intorno alle sbarre di una
cancellata, senza piacere, anzi per sentirne il fastidio, per giudicarla
sciocca e vana, cosicché non debba importare a nessuno di finirla. Cosa prova
chi sa di dover morire? Può forse starsene tranquillo nella sua casa, come
pretende la moglie, ansiosa di curarlo? Una pretesa assurda..”Le domando – così
si rivolge al suo interlocutore - se crede possibile che le case di Avezzano,
le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe
squassate, avrebbero potuto starsene lì tranquille sotto la luna, ordinate in
fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della
Commissione edilizia municipale?” [7]
Ma che cosa è la morte? Come si presenta?
“La morte,
signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno
inopinatamente ci scopre addosso…un passante per via potrebbe avvertirla,
prenderle l’insetto, buttarlo via…Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno
di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e allegri forse ce
l’hanno addosso, nessuno la vede; ed essi pensano tranquilli a ciò che faranno
domani e doman l’altro…”La morte si presenta col nome di un fiore dolcissimo,epitelioma “la morte è passata… mi ha ficcato
questo fiore in bocca e mi ha detto:”Tientelo caro: ripasserò fra 8 o 10 mesi”.
Ora mi dica lei se, con questo fiore in
bocca, io me
ne possa
stare tranquillo”. [8]
Una
‘situazione limite’ come la malattia rappresenta un’esperienza emotiva in cui il soggetto viene mosso e sollecitato
affettivamente per riconoscere le voci che abitano la sua coscienza.
La società ha trasferito ai medici il diritto
esclusivo di stabilire che cosa è la malattia, attuando così un processo di
espropriazione dell’individuo. Lo sguardo medico conosce solo la disgiunzione
del normale e del patologico, riflette sulla malattia come un’entità clinica
che ha un ‘decorso’, un ‘esito’, mai un ‘senso’.
Con la
crisi del modello positivistico è emersa la necessità di ripensare lo stesso
vocabolario medico relativo alla malattia. Abbiamo un vocabolario colpevolmente
povero per ‘dire’ la sofferenza: dobbiamo moltiplicare le nostre parole,
elaborare concetti per nominare in modo più attendibile l’universo così
multiforme, variegato, plurimo del dolore.
Paradossalmente,
il paziente non è, rispetto a ciò che soffre, che un fatto esteriore. Ma la
malattia mortale, che irrompe in un
momento qualunque di una vita normale, è presente nel corpo vissuto e viene
percepita come un mutamento radicale del mondo della vita, anzi, come la sua
distruzione. Per questo occorre recuperare lo spazio della soggettività–e cioè
dei modi irripetibili e imprevedibili in cui ciascuno fa esperienza della ‘sua‘
malattia--,considerando colla massima attenzione tutte quelle
autorappresentazioni, cariche di significati simbolici, secondo cui il soggetto
vive il suo dolore. Per il malato,
infatti, la malattia non è semplicemente il guasto di un ingranaggio: è,
innanzitutto, una questione di senso. Il corpo diventa improvvisamente
estraneo, se non nemico; si scatenano emozioni profonde, angosce, paure.
Invisibile,
indicibile, il dolore fisico è radicato profondamente in chi lo prova e spesso
non è comprensibile agli altri, rende estranei sulla terra, separa dagli altri
e dal mondo del ‘per lo più’. La
sofferenza traccia un solco profondo di divisione, di estraneità e di
separazione intorno a chi soffre che vive in un ‘mondo differente’e anche in un
‘tempo differente’: si guarda al futuro non come spazio di possibilità ma come
contrazione delle possibilità. La
prospettiva della vita quotidiana - costituita da oggetti, abitudini, azioni
che diamo per scontati - viene sovvertita: ci si trova in un territorio
sconosciuto, ambiguo, nemico.
La
malattia – per riprendere un’espressione di Susan Sontag – è la nostra seconda
cittadinanza e con essa si diventa cittadini di una terra che non si vorrebbe
mai abitare: “l’altro paese”, in cui
la persona si trova a chiedere ospitalità in una lingua straniera.[9]
La stessa metamorfosi da essa indotta si rivela così profonda che il “pensar da
sano”appare del tutto incongruente rispetto alla situazione nuova e
imprevedibile che si sta vivendo.
Ne La
toccatina– termine che indica il passare della morte che “tocca” l’ uomo e
ne fissa la maschera, in attesa di un nuovo e definitivo ritocco che lo renda
immobile del tutto e per sempre – Cristoforo Golisch incontra un vecchio
compagno di tante avventure, Beniamino Lenzi, colpito da un ictus, “toccato
dalla morte, quasi morto per metà, e cangiato”. Ne è costernato: non riesce a
rassegnarsi dinanzi all’amico il quale, invece, pare non rendersi affatto conto della sua condizione: ”Strascinandosi
per via, non vedeva nessuno, non pensava a niente; mentre la vita gli turbinava
intorno, agitata da tante passioni, premuta da tante cure,egli tendeva con
tutte le forze che gli erano rimaste a quel lampione, prima; poi ,più giù, alla
vetrina di un bazar, che segnava la sua seconda tappa…” [10].
Golisch non riesce a capacitarsi di come l’amico non si ammazzi e, parlando tra
sé e sé, così si rivolge al destino:”No, ah, no perdio! Io non mi riduco in
quello stato! (…) Mi passeggi accanto e
ti diverti a vedere come mi hai conciato? (…) Questo spasso io non te lo do! Mi
sparo, m’ammazzo com’è vero Dio!”. Circa un mese dopo, capita anche a lui una
“toccatina”: perde lì per lì la parola e l’uso di metà del corpo.
Successivamente gli capita uno strano fenomeno: non parla più in italiano, ma
tedesco ( Golisch era nato in Italia da genitori tedeschi). Gli amici hanno un
saggio pietoso di quella nuova lingua ma egli “non aveva punto coscienza della
curiosissima impressione che faceva, parlando a quel modo. Pareva un naufrago
che si arrabattasse disperatamente per tenersi a galla, dopo essere stato
tuffato e sommerso per un attimo eterno nella vita oscura, a lui ignota, della
sua gente. E da quel tuffo, ecco, era balzato fuori un altro; ridivenuto
bambino, a quarant’otto anni, e straniero. E contentissimo era. Sì, perché
proprio in quel giorno aveva cominciato a poter muovere appena appena il
braccio e la mano.” [11]
Gli altri
continuano a pensare che sarebbe stato meglio morire piuttosto che restar così
“malvivo”.Ma non lui:”Si sentiva rinato. Aveva di nuovo tutte le meraviglie di
un bambino e anche le lagrime facili, come le hanno i bambini, per un
nonnulla.”. Ed ecco, i due amici si rincontrano. Ogni giorno si ritrovano per
via, facendo le stesse tappe, fino a che decidono di andare a trovare una
comune amica dei tempi passati, Nadina, da cui
ricevono, felici, baci e carezze.
Una
novella per molti aspetti straordinaria col suo scompaginare, in modo tenero e
spietato, le nostre sicurezze, a partire da quella di presumere di sapere cosa
decideremmo una volta che ci capitasse la “toccatina”. Ma noi – avverte
Pirandello - pensiamo “da sani”, convinti che la nostra identità permanga
intatta, che il nostro ‘io’ sia fissato nella forma che ci è nota. Al di là dei
pensieri rassicuranti, dei propositi e delle intenzioni espresse, resta il
segreto che noi siamo, irriducibile a qualsiasi discorso. Potremmo dunque, ad
esempio,’ dichiarare anticipatamente’, ora per allora, le nostre volontà
future? La questione in campo bioetico è
- e deve restare - drammaticamente aperta: è comunque assai salutare il dubbio che la
novella insinua in noi, nel suo spingerci ad una riflessione senza orpelli sulla nostra vulnerabilità, dato costitutivo
della condizione umana. Siamo tutti esposti al rischio di essere feriti.
Se la malattia provoca quella che Elaine
Scarry ha definito “la distruzione del mondo”[12],
la narrazione dell’esperienza vissuta dal soggetto può configurarsi come una
via percorribile per ricostruire quel mondo distrutto.
Per una
medicina intenzionata a passare dalla misurazione
dei sintomi alla narrazione del vissuto – un
tema su cui la bioetica è oggi fortemente impegnata – il contributo
pirandelliano è complessivamente incommensurabile. Penso in particolare ad una
novella Visitare gli infermi,
straordinario affresco corale dello spettacolo della morte.
“In meno di un’ora per tutto il paese si
sparse la notizia che Gaspare Naldi era
stato colpito d’apoplessia…”
L’attenzione di Pirandello si concentra su coloro che compiono questa
‘opera di misericordia’: i primi visitatori, amici e conoscenti, colla loro
ansia di notizie (“Non è ancor morto?”), la frotta di curiosi assiepati nelle
stanze, i parenti del moribondo in preda all’angoscia, ma anche su coloro
- i
medici curanti – che sono chiamati professionalmente a ‘prendersi cura’
degli infermi. Si intrecciano i discorsi, ci si interroga sul termine
‘embolia’, sgomenti tutti dall’oscura minaccia di quel male:”Un piccolo grumo! Si stacca…gira…e poi…embolé, interponimento…Da che dipende la vita d’un uomo! Può
accadere a tutti un caso simile. E ciascuno pensò di nuovo a sé, guardando con
crudeltà quelli tra gli astanti che si sapevano di salute cagionevole.” [13] V’è chi parla della fatalità (“ si ha un bel
guardarsi di tutto e aver cura della propria salute: arriva il giorno
destinato, e addio.”), chi narra, intercalandola da aneddoti personali, la vita
del Naldi negli ultimi tempi, nel tentativo di scoprire la causa segreta del
suo male, chi consulta l’orologio (“Era l’ora della cena,pei più; ma nessuno
avrebbe voluto andar via. La catastrofe poteva essere imminente”.) Infine appaiono
sulla scena i medici curanti, nel silenzio sgomento degli astanti, come in
attesa d’un responso inappellabile. Tra
di essi v’è un medico giovane, il dottor Bax, all’inizio della carriera,
e quindi costretto a ossequiare i medici più affermati, (“tutti – s’intende –
asini per lui”), il quale si ritiene comunque fortunato d’essere stato chiamato
in quell’occasione “al letto d’uno in vista come Naldi”. Tale incarico – che
gli è stato affidato dai colleghi unicamente perché lo ritengono
resistentissimo al sonno - potrà far
aumentare la sua considerazione sociale, il che lo sollecita ad assistere col
massimo zelo il moribondo. I tre medici curanti, cui il giovane dottore
riferisce lo stato dell’infermo durante la loro assenza, oltre a non
prestargli ascolto, lo zittiscono
bruscamente: solo a loro spetta
l’osservazione del morente, l’accertamento della sua sensibilità residua
e quindi le decisioni relative alla terapia da seguire: rapido consulto, a
seguito di veloci confabulazioni,e quindi prescrizioni per la notte . Alla
domanda affannosa dello zio canonico, che vorrebbe lasciar fare a Dio :”Perché
prolungar così lo strazio di questa agonia?”si oppone una risposta secca e
definitiva :”E’ nostro dovere, reverendo”. I tre medici curanti si allontanano
ma, nel frattempo, continua la lotta disperata di Naldi colla morte:”quel corpo
gigantesco a cui la morte teneva adunghiato il cervello, si contorceva
orribilmente nella lotta incosciente, tremenda, delle ultime forze..”
Solo il
dottor Bax sembra essere per un attimo compreso dal mistero della morte,
contemplando, dal balcone, gli astri “impalliditi dal chiaror lunare. Ma
nessuna relazione, veramente, agli occhi suoi, tra quel cielo e quell’anima che
agonizzava crudelmente dentro la stanza. Favole! Il Naldi sarebbe finito tutto
laggiù… E cercò con gli occhi, in un punto noto della vallata, la macchia fosca
dei cipressi del camposanto. Laggiù…laggiù…tutto e per sempre. E, nella
sincerità ancora illusa della sua giovinezza, immaginò, attraverso gli stenti
superati per procacciarsi quella professione di medico, il suo compito in mezzo
agli uomini: alleviare le sofferenze, allontanare la morte, l’orrenda fine,
laggiù.”. Il momento della verità è
respinto anche per lui nella rassicurante retorica della sua vocazione professionale.
Frattanto la visita dell’onorevole Delfante,
amico e compagno di scuola del moribondo, la sua esclamazione:”Che siamo!”,
dinanzi allo strazio dell’agonia, inorgoglisce i presenti, beati della sua
degnazione e della fortuna di averlo lì con loro. Comincia una conversazione a
bassa voce, che finirà poi, più animatamente, per avviarsi verso “l’agitato
mare della politica, dietro la sconquassata nave ministeriale”…
A sera
inoltrata si ritrovano nella casa del moribondo i visitatori del giorno. “ e
chi sa, forse avrebbero assistito anche loro alla morte, che pareva dovesse
avvenire da un momento all’altro. Del resto, fuori, in città, non si sarebbe
trovato modo di passar la serata.”. Alcuni si interrogano su certi strani
fenomeni spiritici, altri sulle ragioni della paura che incutono i morti, fino
a che, richiamati dalle litanie del prete, si accostano al letto di Naldi.
“Tutti tenevano gli occhi fissi sul moribondo. Ecco come si muore! Domani,
entro una cassa, e poi sotterra, per sempre!”. Nel silenzio della casa
scoppia il pianto disperato della
moglie, non consolato dalle parole del prete che si appella alla volontà
imperscrutabile di Dio. Giungono nella stanza anche i piccoli figli che,
pallidi ancora di sonno, guardano il padre “con occhi sbarrati dal pauroso
stupore”, e cominciano anch’essi a piangere, dinanzi al dolore della madre.
Lo
spettacolo è finito. Pian piano i visitatori se la svignano, impegnati chi ad
annunciare la notizia della morte, chi a descriverla vividamente a coloro che
manifestano la loro delusione per non avervi potuto assistere. La vita
riprende.“Alcuni ritornarono a casa per rimettersi a dormire; altri vollero
trar profitto dell’essersi levati così per tempo, facendosi una bella
passeggiata per il viale all’uscita del paese, prima che il sole s’infocasse”. [14]
Pirandello
ci offre, nella misura del racconto breve, una rappresentazione spietata del
nostro distogliere gli occhi dalla morte, quella paura primordiale che ci
assale e che viene annegata nella chiacchiera, nella vacuità della vita che
continua come se niente fosse. Nella demistificazione della miseria che si cela
dietro le ‘opere di misericordia’ - le
curiosità pettegole, le ambizioni mediocri,
le piccole rivalità - campeggia nella
sua tragicità la solitudine assoluta di chi è impegnato nel ‘corpo a corpo’
colla morte.
Il
paternalismo medico vi celebra i suoi trionfi con le domande cui non dà
risposta, la totale assenza di dialogo, l’arroganza compiaciuta di sé, i
rapporti sotterranei di potere tra i professionisti della salute. Tutti si
sottraggono all’interrogativo ineludibile sul significato del morire, sul
mistero che avvolge il nostro esistere, prigionieri inconsapevoli dell’angoscia
del non senso.
***
La
riflessione bioetica – lo si è detto - può trovare un terreno
straordinariamente fecondo nella
narrazione: la complessità dei meccanismi espressivi, la stessa
concentrazione cronologica dei racconti invitano a una presa di posizione personale, stimolano
chi legge ad elaborare le ragioni – non
aprioristiche – di un proprio giudizio morale.
Quello di
Pirandello è appunto un metodo induttivo e maieutico che favorisce l’esercizio
dell’intuizione e lo stimolo alla critica, al coraggioso approfondimento. Il
potere evocativo delle sue immagini ci fa accedere alla dimensione del
‘perturbante’ – il contrario di ciò che è confortevole, familiare, abituale,
tranquillo – svelandoci sempre qualcosa
di ignoto e di misterioso: il
‘perturbante’ infatti rompe equilibri, scardina certezze, apre squarci sulle
nostre dimenticanze – o rimozioni -, dà
scacco ai trucchi della mente.
La logica
rivela tutta la sua insufficienza: non ovviamente la logica – in cui Pirandello
è maestro – che smaschera le razionalizzazioni dell’esistenza e le false
verità, ma quella che pretende di risolvere e appianare i conflitti, di fornire
risposte rassicuranti e definitive ai nostri dubbi.
Nel saggio
L’umorismo viene spiegato il congegno
della logica – definita nella novella La
disdetta di Pitagora-- “quella complicatissima macchinetta scacciapensieri”
.“Lo chiamano logica i signori filosofi. Il cervello pompa con essa i
sentimenti dal cuore e ne cava le idee(…) Un povero sentimento…pompato e
filtrato dal cervello per mezzo di quella macchinetta diviene un’idea astratta
generale.”[15]
Il ruolo
della filosofia è, per lui, di porre problemi, non di risolverli. Diffidente
nei confronti del positivismo--le ‘certezze’ delle scienze – ma anche dello
spiritualismo – le ‘certezze’ della religione – si riconosce in un
problematicismo che rifiuta ogni sicurezza dogmatica per assumere pienamente la
dimensione del mistero.[16]
La
‘ragione’ si rivela come la punta di un
iceberg che cela la parte sommersa che non si vede ma che conta di più: il
mondo della vita. Ci si rende allora conto che è necessario un cuore umano,
oltre che una ragione umana, per capire la morale e il cuore risponde a persone
particolari, non a principi universali di giudizio astratto.
Ciò vale
in particolare per le questioni eminentemente controverse che si collocano ai
confini della vita, non solo – per riprendere il tipico linguaggio della bioetica scolastica – alla sua ‘uscita’, ma anche alla
sua ‘entrata’. Le nuove tecnologie riproduttive, nella loro grande diversità,
appaiono tutte accomunate da un elemento: la manipolazione del vivente,
l’intervento umano nel processo della procreazione, un processo che sfugge per
la prime volta alla sola natura. La sfida all’ordine naturale allarga il campo
della nostra libertà e, conseguentemente, quello della nostra responsabilità.
L’ambivalenza dei progressi biomedici mette in gioco le nostre convinzioni più
profonde: le interpretazioni, nel dibattito contemporaneo,oscillano tra
speranza e paura: speranza di una liberazione da pesanti fardelli, paura di una
violenza fatta alla nostra umanità.
La riflessione pirandelliana - che anche sui
temi della nascita è sorprendente per la sua audacia e profondità - trova in
una commedia poco nota e ancor meno rappresentata, L’innesto, uno dei suoi momenti più alti. Questa, in estrema
sintesi, la trama. Sposata a un uomo sterile, cui è unita da un forte amore,
Laura Banti è violentata in un parco da un bruto che la rende gravida. Il
marito, sconvolto dalla vicenda, vorrebbe che abortisse, ma la donna riesce a
convincerlo ad accettare quel figlio come suo. Decisiva sarà per lei – nell’approfondimento del dramma che
ha vissuto e poi nella sofferta
maturazione della decisione – una conversazione del tutto occasionale
sull’arte dell’innesto con un vecchio giardiniere. Ecco la sue parole:
“ Eh, ma
l’arte ci vuole! Se non ci hai l’arte, signora, tu vai per dar vita a una
pianta, e la pianta ti muore (…).Qua c’è una pianta. Tu la guardi: è bella, sì;
te la godi, ma per vista soltanto: frutto non te ne dà! Vengo io, villano, con
le mie manacce; ed ecco, vedi? Pare che in un momento t’abbia distrutto la
pianta: ho strappato; ora taglio, ecco; taglio – taglio – e ora incido –
aspetta un poco – e senza che tu ne sappia niente, ti faccio dare il frutto”.
Laura, immersa nel suo dolore, prosegue stancamente la conversazione finché, ad
una sua domanda: - “Ma la pianta?”- il giardiniere risponde: “bisogna che sia
in succhio,signora! Questo, sempre. Ché se
non è in succhio, l’innesto non lega!”. Alle sue richieste di
spiegazioni su cosa significhi “in succhio”, la risposta è che “vuol dire…in amore”. Una frase, questa, che fa
scattare in lei un vivissimo interesse e
la spinge a porre ulteriori domande:”L’amore di farlo suo, questo frutto? Del
suo amore?” cui segue la risposta ‘tecnica’del giardiniere:”Delle sue radici
che debbono nutrirlo; dei suoi rami che debbono portarlo”. che lei così ritraduce nei termini del suo
vissuto:” Del suo amore, del suo amore! Senza saper più nulla, senza più nessun
ricordo donde quella gemma sia venuta, la fa sua, la fa del suo amore?” E il giardiniere
conferma:”Ecco, così! Così!”. [17]
Ancora una
volta è decisiva l’immaginazione nella riflessione morale. La metafora della
pianta - su cui il contadino opera l’innesto e che deve trovarsi ‘in succhio’
per produrre il frutto - fornisce a
Laura Banti la chiave che le consentirà di riscattare la vicenda di
assoluta violenza di cui è stata vittima. Come la pianta, anche lei avrà il suo
frutto, perché ‘in amore’. E’ infatti la passione dell’amante – Pirandello lo
sottolinea esplicitamente – a far sì che Laura ‘voglia’ quel figlio:” si tratta
di salvare l’amore, si tratta di rendere accettabili per mezzo di una follia
d’amore una sventura brutale e le conseguenze di essa: riscattare con un
sacrificio d’amore, amando fino a morirne, l’odiosità di un frutto violento,
facendo in modo che esso diventi come frutto d’innesto, perché innestato
all’amore”. [18]
Laura è
un personaggio di grande forza interiore
e di notevole complessità psicologica, tale da poterci forse offrire oggi – in
un contesto certo assai diverso da quello della commedia – alcune indicazioni
utili per interpretare talune scelte che le nuove tecnologie riproduttive
rendono possibili Penso, ad esempio, alla fecondazione eterologa – una tecnica
che, per porre rimedio alla sterilità maschile, prevede l’intervento di un
terzo, il donatore di seme, estraneo alla coppia e ad essa sconosciuto e che è
spesso oggetto di una condanna senza appello, in quanto si ritiene lesiva di
quell’inscindibilità tra atto unitivo e procreativo in cui la ‘naturalità’ della
riproduzione dovrebbe consistere.
Ne L’innesto
, come nel complesso della visione pirandelliana, mi sembra assuma
un’importanza decisiva il significato che noi
conferiamo ai nostri gesti, agli eventi in cui siamo coinvolti, quindi
la nostra capacità di trasfigurarli. E’ l’amore ,infatti, a motivare la scelta
di Laura:”Io l’amore volevo salvare!(…) Perché tu vedessi tutta me stessa tua,
nel figlio tuo: tuo perché di tutto il mio amore per te.” , lo stesso
sentimento o, se si vuole,la stessa volontà che – presumo - animi coloro che,
in modo concorde, avvalendosi delle tecniche oggi disponibili, cercano un
figlio. Dovremmo demonizzare tale sentimento? Deprecare tale volontà per il
timore che il figlio diventi – come qualcuno ha affermato – una sorta di ‘prodotto
ingegneristico’, risultato di un ‘narcisismo genitoriale e biotecnologico’?
Il contesto – lo ripeto – è del tutto
differente –: ne L’innesto siamo dinanzi alla
violenza dello stupro che la protagonista ‘eroicamente’ riesce a sublimare –
;oggi è la tecnologia, l’artificiale, ad essere guardata con sospetto, vissuta
talora come una forma di violenza e
accusata di ‘reificare’ l’umano. E tuttavia è in qualche modo
misteriosamente all’opera, in entrambi i casi, quella che si potrebbe definire
la rivincita del simbolico sul biologico:che il figlio sia un ‘prodotto’- un
oggetto o un soggetto –non dipende – ci ricorda Pirandello - né dalle vicende
che hanno accompagnato la sua nascita (né dalle metodologie impiegate), ma
dall’amore con cui è accolto e di cui è testimonianza.
***
Se il ‘mistero dell’uomo’ è quello di una
creatura scissa, di un io diviso in parti in perenne conflitto tra loro, il
‘mistero dell’universo’ è quello di un cosmo incomprensibile colle nostre
categorie “umane, troppo umane”.
La grande arte rimette in gioco il senso del
mondo: Pirandello ci aiuta a liberarci
dalla prigionia del ‘qui’ e dell’’ora’, a considerare il presente, il vicino, il familiare sotto
l’angolo visuale del lontano, dell’inconsueto, del diverso. Il suo potrebbe definirsi
un copernicanesimo: qui, noi, non è
assoluto, non è tutto. Qui vale come là, noi come loro, la nostra verità come
la loro.
L’astronomo
Jacopo Maraventano, assistendo con la fantasia alla prodigiosa attività della
materia eterna, alla preparazione e alla formazione di nuovi soli, al
germogliare dei mondi dall’etere infinito, dinanzi ai grandi pianeti che
sembrano “pallottoline”, si chiede:”che cosa diventava per lui questa molecola
solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario,
cioè questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano
questi pulviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa le vicende della
vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali
calamità?”. [19]
A sua
volta, nella novella La tragedia di un personaggio , il
dottor Fileno elabora “la filosofia del lontano” avvalendosi del procedimento del
‘cannocchiale rivoltato’:”Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso
l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a
esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la
piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose le apparissero
piccole e lontane.” [20]
Quando
parliamo di bioetica abitualmente pensiamo all’uomo ma la bioetica si occupa
del bios, dell’intero mondo vivente,
della natura, degli animali. Anche in questo campo Pirandello è un precursore.
Nelle sue pagine possiamo trovare i lineamenti di un’etica che non solo non spezza i legami tra uomo e mondo
ma riconosce la parentela tra noi e le altre creature, anche le più umili. Non
si tratta tuttavia in alcun modo di un’etica ‘naturalistica’, se con tale
espressione si intende una morale che trova nella natura la sua guida o il suo
modello. La natura non è in lui in alcun modo una maestra di moralità: è
natura,e basta; e quindi, innocente, impassibile, indifferente, come appunto
deve essere.
Nella
novella Il gatto, un cardellino e le
stelle alla ‘tragedia’ vissuta da due vecchi nonni – il cardellino, ricordo della nipotina morta,
divorato da un gatto entrato di soppiatto nella loro casa – fa riscontro la
tranquillità dell’animale ( “mica se lo ricordava, un momento dopo, che s’era
mangiato il cardellino, un qualunque cardellino… se ne stava tranquillo, così
tutto bianco sul tetto nero a guardare le stelle..”) e l’olimpica serenità
degli astri “che dalla cupa profondità della notte interlunare – si può essere
certissimi – non vedevano affatto i poveri tetti di quel paesello tra i
monti…”.[21]Eppure
è così forte per l’uomo l’impulso di attribuire agli animali i propri stessi
sentimenti, rispecchiarvisi, ‘antropomorfizzare’ il non umano.”La vecchia nonna
era certa certissima che con quei gorgheggi il cardellino chiamava ancora la
sua padroncina (…) non sapendo darsi pace di non trovarla più”.Altrettanto
insopprimibile è la nostra tendenza ad
umanizzare la natura:”Una pietra. Un’altra pietra. L’uomo passa e le vede
accanto. Ma che sa questa pietra della pietra accanto? E della zana, l’acqua
che vi scorre dentro? L’uomo vede l’acqua e la zana; vi sente scorrer l’acqua e
arriva finanche a immaginare che quell’acqua confidi, passando, chissà quali
segreti alla zana. Ah che notte di stelle sui tetti di questo povero paesello
tra i monti! A guardare il cielo da questi tetti si potrebbe giurare che le
stelle questa notte non vedano altro, così vivamente vi sfavillano sopra. E le
stelle ignorano anche la terra. Quei monti? E’ mai possibile non sappiano che
sono di questo paesello che sta in mezzo a loro da quasi mill’anni?” [22]
Pirandello
ricerca quei momenti di silenzio interiore in cui l’anima si spoglia delle sue
finzioni abituali e i nostri occhi si
fanno più acuti, fino a cogliere la vita nella sua nudità. Ecco ancora il
‘perturbante’.
Nella
novella Da sé Matteo Sinagra scopre
che la vita tutt’a un tratto si è vuotata di senso:”Si era trovato d’improvviso
con un altro se stesso, ch’egli non conosceva affatto, in un altro mondo che
gli si scopriva adesso per la prima volta attorno: duro, ottuso, opaco, inerte.” Decide d’andarsene da sé al cimitero per
uccidersi, risparmiando le esequie ma, da questa prospettiva di estraniazione
dalla realtà, guarda con occhi nuovi le cose, gli alberi, i monti, le nuvole,
il mare, l’aria: “Gli alberi…oh guarda! Erano così gli alberi? Erano questi? E
quei monti laggiù…perché? Quei monti azzurri con quella nuvola bianca sopra… Le
nuvole…che cose strane!”.[23]
Nasce la meraviglia, lo stupore dell’uomo di fronte al mondo:stato d’animo raro
e prezioso, sola espressione ,forse, della nostra libertà.
“E un
sapore nuovo ha l’aria che gli entra nei polmoni, una soavità di refrigerio su
le labbra, nelle narici…Che delizia! La respira…ah, la beve ora, come non l’ha
mai bevuta di là, nella vita”
Uscire
dalla vita dei vivi significa entrare in un’altra realtà, trovarsi
nell’eternità, in un’”infinita, avvolgente delizia”, “un’ebbrezza divina,
ignota ai vivi”, riscoprire, da morto, se stesso.
Meravigliarsi
che le cose stiano in un certo modo, guardare al mondo con gli occhi dei Greci
– come Pirandello ci invita a fare - è
la strada della conoscenza, quella che può consentirci di penetrare nel mistero
del cosmo.
La natura
si rivela nel suo intatto splendore a Gosto Bombici, anche lui determinato a
togliersi la vita: l’alba – così ha deciso -
sarà il suo ultimo spettacolo. Uscito dalla città,( e quindi dal mondo
del buon senso, dalla realtà convenzionale…Come per Thoreau, occorre
allontanarsi, sia pure temporaneamente, dal consorzio umano per essere aperti
alla rivelazione…) guarda il cielo “ampio, libero, fervido di stelle”; gli
alberi gli appaiono “fantasmi dai gesti pieni di mistero …Per la prima volta li
vedeva così e ne sentiva una pena
indefinibile”. La ‘pena’ è legata alla scoperta di un legame: gli alberi
non sono più ‘cose’, ma presenze misteriose: da
qui l’indefinibilità di quel sentimento, solitamente riservato agli
uomini, che il protagonista del racconto comincia ad estendere anche ad altri
esseri, in una vicinanza fraterna. I sensi si fanno più acuti: “percepì allora
anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta
campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di
tutto quell’ignoto indistinto che formicolava nel silenzio”. [24]I
rumori divengono voci, la natura riacquista la sua vita, la terra ritrova la
sua anima:”Vecchia, vecchia Terra! La sentiva ancora!...l’accarezzò, come si
accarezza una femmina, passandole una mano su i capelli”. Rinasce l’immagine
mitica, femminile e materna, sepolta dalle concezioni meccanicistiche della scienza:
la Terra ritorna ad essere organismo vivente, donna capace di ricambiare le
carezze con i profumi delle sue erbe: “Addio, cara – disse, riconoscente, come
se quella femmina con quella fragranza lo avesse compensato della carezza che
le aveva fatto” [25]
Il sonno profondo e riparatore – e non più la morte – sancirà la
riconciliazione con la natura e con se
stesso.
E
tuttavia, essere aperto al mondo, sentirsi in sintonia con ogni vivente può
significare, per gli altri, “essere matto”.
“Quando ero matto – racconta Fausto Bandini –
non mi sentivo in me stesso; che è come dire: non stavo di casa in me. Ero
infatti divenuto un albergo aperto a tutti. (…) Mi concepivo insomma in società
di mutuo soccorso con l’universo.” Ridiventato savio, dopo aver vissuto quella
follia, ecco come spiega la ritrovata
saggezza :“Pensare a me! – questa la mia nuova divisa. Ce n’è voluto per
persuadermi a intestarne tutti gli atti di questa mia nuova vita, chiamiamola così.” [26]
Contrariamente
a quanto ritengono le etiche di stampo razionalistico, è necessario per un
agente morale interpretare i desideri che lo sorprendono e lo attraggono, per
comprendere chi egli realmente sia, che cosa veramente voglia e quale sia
l’azione che meglio gli corrisponda.
“Agire da matto”, per riprendere le parole del
protagonista, significava “ agire verso gli altri (…) con eguale coscienza di
sé e degli altri, perché sono coscienze come la nostra. Chi facesse veramente
così e alle altre coscienze attribuisse l’identica realtà che alla propria, avrebbe
per necessità l’idea di una realtà comune a tutti, d’una verità e anche di
un’esistenza che ci sorpassa: Dio. Ma non per la gente savia, ripeto.”
L’approdo
è ad un’etica veramente cosmica:
“ Mi
pareva che l’aria tra me e le cose intorno divenisse a mano a mano più intima;
e che io vedessi oltre la vista naturale. L’anima, intenta e affascinata da
quella sacra intimità con le cose, discendeva al limitare dei sensi e percepiva
ogni più lieve rumore. E un gran silenzio attonito era dentro di me, sicché un
frullo d’ali vicino mi faceva sussultare e un trillo lontano mi dava quasi un
singulto di gioia, perché mi sentivo felice per gli uccelletti che in questa
stagione non pativano il freddo e trovavano per la campagna da cibarsi in
abbondanza; felice, come se il mio alito li scaldasse e io li cibassi di me.” [27]
In questa
visione, che potrebbe quasi definirsi panteistica, Pirandello anticipa in modo sorprendente alcuni temi della contemporanea etica ambientale,
specie dell’ecologia profonda che celebra, nella perdita mistica di ogni
confine tra sé e le cose, la ritrovata fraternità dell’uomo colla natura.
“Penetravo
anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba
assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita di ogni cosa, finché mi pareva
di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il
mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima; e andavo d’un tratto
così, estatico e compenetrato in questa divina visione.”
Corpo e
mondo trapassano l’uno nell’altro, formano un’unica realtà, in una comunione
panica che sembra rinnovare l’antico animismo. E’ quanto esprime oggi il
filosofo norvegese Arne Naess :”Il nostro io ecologico non è limitato dai
confini della nostra pelle.” [28]
Ma l’etica
cosmica, dal punto di vista della morale comune, è “follia”.
E’ la
stessa etica di Tommasino Unzio, soprannominato “Canta l’epistola”, che avverte
la vanità e la transitorietà delle gioie e dei dolori degli uomini, “quasi
vicende di nuvole,” dinanzi all’eternità della natura. Da qui la sua “
tenerissima pietà per tutte le cose che
nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza sapere perché, in attesa del
deperimento e della morte.” [29]
E’ ancora
la ‘meraviglia’ad affiorare dinanzi a tutte le forme di vita, specie le più
labili e inconsistenti, ai modi in cui esse nascono, senza sapere perché, per una volta sola e ‘solo’ in quella, talora
per un giorno e in un piccolissimo spazio nell’ignoto, enorme mondo.
“Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba.(…) Il filo d’erba
nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai
più!”
Dalla
meraviglia nasce la ‘cura’, anche per un filo d’erba, seguito da Tommasino
quasi con tenerezza materna nel suo
crescere:”Lo carezzava, lo lisciava con due dita delicatissime, quasi lo
custodiva con l’anima e col fiato; e, nel lasciarlo, la sera, lo affidava alle
prime stelle…”
Ma un giorno proprio quel filo d’erba è
strappato distrattamente da una gitante ignara, la signorina Olga Fanelli. La
situazione precipita: Tommasino, che “s’era sentito strappar l’anima”, la
insulta; e di conseguenza il fidanzato
lo sfida a duello .Colpito a morte, “Canta l’epistola” , dinanzi alle domande
pressanti sul perché, risponde semplicemente :”Per un filo d’erba…” lasciando
tutti nella convinzione della sua follia.[30]
***
“Follia
agli occhi del mondo, sapienza agli occhi di Dio”, per ripetere le parole
dell’apostolo. Tommasino Unzio, come Fausto Bandini, si comportano in modo
incomprensibile ma il loro agire reca il sigillo di una morale di specie più
elevata: un’etica che – il pensiero
corre alla rensiana ‘morale come pazzia’-
appare irrazionale agli occhi dei più perchè ha contro di sé tutti gli
istinti dell’uomo medio, è svantaggiosa, si oppone alla morale dei benpensanti,
alla ragione prudenziale.
Una
morale, dunque, non solo destinata al fallimento ma che anzi – potremmo dire -
si qualifica per l’insuccesso, recando in sé la propria autenticazione. In tal
modo vengono scompaginati i calcoli rassicuranti di ogni etica che voglia far
coincidere il bene con l’utile ( ovvero con la felicità del maggior numero). E’
la dimensione creativa dell’agire etico,quella che contravviene alle norme
consuetudinarie e tende a rompere il cerchio chiuso del piccolo gruppo per
espandersi all’intero mondo vivente. Ma, perché ciò avvenga, occorre lasciare
lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un
orizzonte differente, in uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia –
confrontati con ciò che è altro – di scoprirsi senza “luogo proprio”. E’ quel
che può accadere quando si decide di attraversare le frontiere, soprattutto le
più stabili e definite, come quella tra umano e
non umano. I confini possono essere sia ponti che barriere: osservandoli
possiamo accorgerci di ciò che includono e di ciò che escludono.
Come
“de-finire”, dunque, la categoria ‘animalità’? Di rado essa è interrogata in
maniera esplicita, pur essendo fonte di perplessità più abissali della domanda
relativa all’umanità stessa.
Da sempre
– lo sappiamo - il rapporto dell’uomo col mondo non umano è mediato da
stereotipi, rappresentazioni irrealistiche, distorte, largamente immaginarie,
che rispondono ben più ai nostri bisogni che non alla realtà del mondo animale.
E’ all’opera il meccanismo ben noto
della proiettività che consiste nell’attribuire agli altri- e chi è più ‘altro’
dell’animale ?- caratteristiche, atteggiamenti, intenzioni che nel profondo ci
appartengono, ma la cui presenza in noi viene ignorata o accuratamente rimossa.
Quali i
motivi? Vogliamo conservare un’immagine assolutamente positiva di noi stessi,
allontanando le componenti inaccettabili della nostra personalità, scaricando
sull’altro ( i diversi, appunto)
tutto ciò che di negativo ci appartiene. E chi è più diverso dell’animale? Entra in gioco, in tal modo, una componente
di aggressività che fa sì che nell’altro, l’animale, non si ritrovi solo il
volto negativo (“il lato bestiale”) ma anche il fantasma di una negatività più
inquietante e minacciosa. Che cosa può significare allora dire “che bestia!”ad un animale? E ad
un uomo? Valgono gli stessi metri di giudizio?
Nella novella Al valor civile, il protagonista, Bruno Celesia, teme che, col dire
agli uomini, per ingiuriarli,” tigri,iene, lupi, serpi, scimmie o conigli..”,
in realtà si rechi agli animali
un’ingiuria non meritata, dal momento che ciascuno si conforma obbediente alla
propria natura. Non così l’uomo… [31]
Viene
colpita in breccia da Pirandello la
mentalità antropocentrica che ci fa
vedere gli animali come in uno ‘specchio oscuro’,attraverso le lenti deformanti
delle nostre angosce e paure..
Allo stesso modo,in Paura d’esser felice, Fabio Feroni, dinanzi agli sforzi ripetuti di
una vecchia tartaruga per salire alcuni gradini e poi ricadere riversa a terra,
cerca di aiutarla ma invano: l’animale vuol riprendere da sé l’eterna fatica.
“Che bestia !”– esclama, accorgendosi poi di “aver detto bestia ad una bestia,
come si dice bestia a un uomo”, e cioè per rimproverarla di aver rifiutato stupidamente
il suo aiuto.
Ma in tal
modo, così riflette, “dicendo in questo senso bestia ad un uomo, si viene a
fare alle bestie una grandissima ingiuria, perché si viene a scambiare per
stupidità quella che invece è probità in loro o prudenza istintiva. Bestia, si
dice a un uomo che non accetta l’aiuto, perché non è lecito pregiare in un uomo
quello che nelle bestie è probità” [32]
La bestialità è l’animalità qualificata in
senso peggiorativo e sfavorevole, in riferimento a norme morali umane, ma è
anche, più profondamente, la condizione in cui ricade l’individuo quando perde
la sua ‘umanità’, nel senso normativo del termine, è lo scacco per cui l’uomo
non riesce a conformarsi al suo modello specifico. L’animale ridiventa uno
‘specchio oscuro’dell’umano, un essere di cui si avverte l’inquietante e,
insieme, familiare estraneità, la memoria angosciosa di una ferinità perennemente in agguato.
E’ ancora
possibile, dunque, riconoscere gli animali come animali, guardarli come
realmente sono: creature dotate di sensibilità e di consapevolezza, capaci di
una vita ricca e complessa? Uno dei percorsi
è probabilmente quello della
pietà…
Saper trattare con il diverso, con quello che
è radicalmente ‘altro’da noi: in ciò consiste la pietà, forse la virtù più alta, il sentimento originario più ampio e
profondo , “quasi la patria di tutti gli altri” – per riprendere l’espressione
di Maria Zambrano .[33]
Ne Il
cavallo nella luna una giovanissima sposa il giorno stesso delle nozze,
durante una passeggiata in campagna, scopre un cavallo abbandonato, ormai
scheletrico,lasciato agonizzare dai contadini. Mossa dalla compassione e
dall’orrore per un animale portato a
morire, perché è vecchio e non serve
più, (”Ah, povera bestia! Che infamia! Che infamia! Ma che cuore hanno codesti
villani?”) si china ad accarezzare la testa del cavallo “che s’era tirato su a
stento da terra, ginocchioni su le due zampe davanti, mostrando pur
nell’avvilimento di quella sua miseria infinita un ultimo resto, nel collo e
nell’aria del capo, della sua nobile bellezza.” [34]
Pirandello
ha vivissimo il senso immaginativo della diversità della vita animale: noi
siamo misteriosamente come loro e siamo misteriosamente differenti da loro.
Cos’è ,ad
esempio, per un cavallo la libertà? Può pensare d’essere libero? Gli è forse
dato di farsene un’idea quando l’abbia davvero?
“Quando
gliela levano, dapprima per istinto si ribella; poi, addomesticato, si rassegna
e adatta. Forse quello, nato in qualche stalla, libero non è stato mai. Sì, da
giovane in campagna probabilmente, lasciato a pascolare sui prati. Ma libertà
per modo di dire, prati chiusi da staccionate. Se pure c’è stato, che ricordo
può averne?”. [35]
Messo fuori dalla sua stalla, libero ormai da
ogni finimento,lasciato solo perché non
serve più a nulla, un vecchio cavallo, abbandonato da tutti, se ne va per le
strade del paese, accompagnato dal codazzo dei monelli, e poi , fuori
dall’abitato, respira nel vento l’odore dell’erba, assaporandola con gli occhi
socchiusi – quegli occhi “d’una vita sempre in ansia” che, a differenza di
quelli del cane “che chiedono scusa o pietà”, nessuno comprende.
Pirandello
si avvede assai bene che la nostra comprensione empatica è ben limitata. Il
cavallo, a differenza del cane, non è un animale ‘familiare’e pertanto nei suoi
confronti non scatta quel sentimento di ‘cura’ riservato solo a chi partecipa
pienamente della nostra vita: sfortunato animale di confine, dunque, il cui
statuto oscilla tra quelli ‘buoni da
pensare’ e quelli ‘buoni da mangiare’.
La sua
‘fortuna’tuttavia - secondo Pirandello - è di non sapere: né di essere libero,
né di dove o come andrà a finire. “Ora, per il momento, mangia l’erba della
proda. La sera è mite. Il cielo è stellato. Domani sarà quel che sarà. Non ci
pensa.” [36] Il peso della
coscienza di vivere e di dover morire è risparmiata agli animali che, a differenza degli uomini, vivono sulla
soglia dell’attimo, non soffrono – come già Nietzsche aveva intuito- della
“malattia storica” che ci affligge.. Ma il loro non sapere non ci solleva dalla
responsabilità della loro sofferenza, non ci assolve dalla crudeltà
dell’abbandono.
Nessuno
vuole il cavallo, nemmeno in regalo, perché
non vale più la spesa del fieno, così vecchio e malandato; “tanti, per
levarselo, ricorrono al mezzo sbrigativo di ucciderlo Una palla di fucile costa
poco. Ma non tutti hanno il cuore di farlo. Resta però da vedere – nota
Pirandello – se non è più crudele abbandonarlo così”.
“Gli
animali sono creature di Dio”: con queste parole, nella novella Fuoco alla paglia, il vagabondo Nazzaro,
un’altra incarnazione della ‘morale come follia’, ( “due soldi di pane e due soldi di frutta.
Non aveva bisogno d’altro.”) riesce a convincere Simone Lampo a liberare le centinaia di
uccellini che tiene prigionieri in un gabbione per mangiarseli: un’azione da
lui giudicata ‘peccato mortale’.[37]
“ Gli uccelli, da più mesi imprigionati, in
quel subitaneo scompiglio, sgomenti, sospesi sul fremito delle ali, non seppero
in prima spiccare il volo:bisognò che alcuni, più animosi, si avventassero via,
come frecce, con una strido di giubilo e di paura insieme; seguirono gli altri,
cacciati, a stormi a stormi, in gran confusione, e si sparpagliarono dapprima,
come per rimettersi un po’ dallo stordimento, sugli scrimoli dei tetti, su le
torrette dei camini, su i davanzali delle finestre, su le ringhiere dei balconi
del vicinato, suscitando giù, nella strada, un gran clamore di meraviglia, a
cui Nazzaro, piangente dalla commozione, e Simone Lampo rispondevano seguitando
a gridare per le stanze ormai vuote:-Sciò! Sciò! Libertà! Libertà”. [38]La
liberazione degli animali sarà insieme
riconquista, per Simone Lampo,
contagiato dalla “fiducia serena” nella vita di quel ‘matto’ di
Nazzaro,della libertà.
Nei
personaggi pirandelliani la morale nasce dalla pietas, da intendersi in senso latino, come rispetto sacro per le
cose, da cui deriva una universale compassione
nei confronti di tutti i viventi.
E’ così che il vecchio Marabito ne Il
vitalizio sente pena per il suo
podere che ha deciso, suo malgrado, di lasciare:”Conosceva gli alberi uno per
uno; li aveva allevati come sue creature (…). Pena per il podere e pena anche
per le bestie che tant’anni lo avevano aiutato: le due belle mule che non
s’erano mai avvilite a tirar l’aratro per giornate sane; l’asinella che valeva
più delle mule, e Riro il giovenco
biondo come l’oro, che tirava da sé senza benda né guida l’acqua del pozzo,
pian piano, com’egli l’aveva ammaestrato.” [39] Marabito sa che lasciare la sua terra è come
morire ma ‘deve’ farlo perché non si sente più buono per lavorarla, come il suo
cuore vorrebbe. Il suo rincrescimento aumenta quando scopre che il nuovo
padrone abbatte gli alberi e maltratta gli animali ( “Le bestie, figlio mio,
guardale bene negli occhi: t’accorgerai che la fatica la capiscono; la gioia,
no.”); poco gli importa – gli si obietta – che è suo diritto farlo. “Domandava
di quel tal mandorlo, di quel tale olivo e della vigna e dell’agrumeto, e non
gli importava che la terra non fosse più sua, purché facesse il suo dovere e, lasciando
contento il nuovo padrone, si facesse amare da lui.” [40]
Le cose
andranno diversamente da come Marabito aveva previsto; dopo varie
vicissitudini, il podere ritornerà a lui che si ritroverà – centenario - a
curare con amore la sua terra: un amore doloroso, nutrito di tenerezza per le
cose periture, minacciate dalla violenza.
Ancora una
volta – come in altre novelle – ai disegni degli uomini si sostituirà un
‘disegno’ del tutto imprevedibile che la vita ha misteriosamente tracciato. Un
disegno visibile solo a posteriori, come nel racconto di Karen Blixen dell’uomo
che, affacciandosi al mattino dalla finestra, vede con sorpresa che le orme dei
suoi passi nella notte hanno composto l’unità di una figura.[41]
***
Al termine
di questo percorso potrà forse farsi più chiaro il rapporto che si è cercato
all’inizio di delineare tra immaginazione ed etica..
E’ quasi
impossibile – a mio avviso - leggere un racconto, interessarsi alle vicende dei
personaggi, appassionarsi per la loro sorte, senza che sorgano riflessioni
morali. Se si segue una storia con attenzione e partecipazione, rispondendo
alle sue sollecitazioni e lasciando che i suoi protagonisti suscitino in noi
delle emozioni, pressoché inevitabilmente si giungerà a formulare valutazioni
ispirate dalla nostra personale concezione del bene. Per questo la narrazione
stimola il pensiero etico: l’atto di leggere e di valutare ciò che si legge è
costruito infatti in maniera tale da
richiedere l’astrazione, l’analisi e la
discussione critica, basate sul
confronto tra le proprie esperienze e le ragioni e gli argomenti altrui.
L’immaginazione
non comporta pertanto né una mancanza di senso critico né una perdita della
distanza tra noi e gli altri: la nostra identità, anzi, si consolida. E’ sempre
infatti dalla ‘nostra’ prospettiva che guardiamo, e quindi valutiamo, eventi e
persone, applicando una teoria morale, elaborando una concezione di carattere
generale, di ampiezza e valore universale.
Non si
tratta dunque in alcun modo di sostituire l’immaginazione narrativa al ragionamento morale – che è governato da
regole, ispirato a principi, sostenuto da argomentazioni -quanto di
valorizzarla per esplorare la trama complessa che compone la nostra
visione, cogliendo ciò che rende vivi i legami, gli affetti, gli stupori che
appartengono alla nostra capacità di interessarci del mondo. In questo
esercizio di risveglio delle fonti della vita morale, l’immaginazione potrà
allora rivelarsi come componente essenziale di un’etica in cui si manifesti, per ciascuno, il segreto
della sua esistenza.
* Professoressa di Bioetica e di
Filosofia Morale preso l'Università di Genova. Membro del Comitato Nazionale per
[1] P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano
1993, p. 231
[2] M. Kundera,L ‘arte del romanzo, Adelphi, Milano
1986 p. 220
[3] M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il
multiculturalismo e l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 1999. V. il
cap.3, L’immaginazione narrativa
[4] R. Nozick, La vita pensata. Meditazioni filosofiche,
Rizzoli, Milano 2004, p. 12
[5] Rinvio per un
approfondimento al mio Le dimensioni
della bioetica. La filosofia morale dinanzi alla sfida delle scienze della vita,
Name,, Genova 1999.
[6] L. Pirandello, La tragedia di un personaggio nella
raccolta L’uomo solo in Novelle
per un anno. Introduzione di N. Borsellino. Prefazione e note di L. Sedita,
Garzanti, Milano 1993, pag.330.
[7] L. Pirandello, La morte addosso nella raccolta Il silenzio in Novelle per un anno cit. p.55
[8] ibidem
[9] S. Sontag,La malattia come metafora, Einaudi,
Torino 1992.
[10] L. Pirandello, La toccatina nella raccolta La vita nuda in Novelle per un anno, p.237
[11] Ivi, p. 242
[12] E. Scarry, La sofferenza del corpo, Il Mulino,
Bologna 1990
[13] L. Pirandello, Visitare gli infermi nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit., p. 114
[14] Ivi,
p. 132
[15] L. Pirandello, La disdetta di Pitagora nella raccolta Il vecchio Dio in Novelle per un anno cit. p.173
[16] Si veda in particolare la
novella Il vecchio Dio nella raccolta
omonima, cit. pp.141-147
[17] L. Pirandello, L’innesto. Atto II in L‘innesto, La patente, L’uomo, la bestia e
la virtù, a cura di R. Alonge, Mondadori, Milano 1992, p.27
[18] L. Pirandello in Introduzione a L’innesto,
cit. p. X
[19] L. Pirandello, Pallottoline
nella raccolta Donna Mimma
in Novelle per un anno cit.,pp.491-2
[20] L. Pirandello, La tragedia di un personaggio nella raccolta L’uomo solo in Novelle per un anno cit. p.328
[21] L. Pirandello, Il gatto, un cardellino e le stelle nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit., pp.58-9
[22] Ivi,
p. 53
[23] L. Pirandello, Da sé nella raccolta Il
viaggio in Novelle per un anno
cit., p.257
[24] L. Pirandello, La levata del sole nella
raccolta Donna Mimma in Novelle per un anno cit.,p.292
[25] Ivi,
p.295
[26] L. Pirandello, Quand’ero matto nella raccolta Donna
Mimma in Novelle per un anno
cit.,p.180
[27] Ivi,
p. 184
[28] A. Naess, Dall’ecologia
all’ecosofia, dalla scienza alla saggezza in Physis. Abitare la terra a cura di M. Ceruti e E. Laszlo, Feltrinelli, Milano 1988, p. 461
[29] L. Pirandello, Canta l’epistola nella
raccolta La rallegrata in Novelle per un anno cit.,p.17
[30] Ivi, pp.19-20
[31] L. Pirandello, Al valor civile nella raccolta Il
vecchio Dio in Novelle per un anno
cit. p.159
[32] L. Pirandello, Paura d’esser felice nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un
anno cit.,p.99
[33] M. Zambrano, Per una storia della pietà, ‘Aut-Aut’, n. 279, maggio-giugno 1997
[34] L. Pirandello, Il cavallo nella Luna nella raccolta Donna Mimma in Novelle per un
anno cit.,p. 89
[35] L. Pirandello, La fortuna di essere cavallo nella raccolta Una giornata in Novelle per un anno cit.,p. 530
[36] Ivi,
p. 534
[37] L. Pirandello, Fuoco alla paglia nella raccolta Scialle nero in Novelle per
un anno cit.,p. 314
[38] Ivi,
p. 319
[39] L. Pirandello, Il vitalizio nella raccolta Donna
Mimma in Novelle per un anno
cit.,p. 237
[40] Ivi, p. 257