UNA RIFLESSIONE
SULLA SOPRAVVIVENZA DEGLI IDIOMI MINORITARI IN EUROPA
Angelo
Marconcini*
“Se le parole di ciascuna lingua non fossero più quei supporti infinitamente diversificati di civiltà eterogenee che fanno talvolta della traduzione una deliziosa quadratura del cerchio; se esse diventassero degli stereotipi in cui si esprimono invaribilmente le nozioni e gli oggetti comuni a tutte le culture; allora l’utilità di quelle parole sarebbe essenzialmente pratica, la loro giustificazione economica, e l’apprendimento di una nuova lingua non costituirebbe più un arricchimento dell’intelletto.” (Hagège, Claude, Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell'umanità, Feltrinelli, Milano 2002)
In sociolinguistica s'intende per pianificazione un
complesso di misure adottate per intervenire sul processo di disgregazione di
una lingua, ovvero di una o più lingue contigue al fine di promuoverne lo
sviluppo congiunto. I criteri che stabiliscono quali idiomi e quali elementi di
questi idiomi debbano essere oggetto di pianificazione, in realtà sono molto
meno espliciti di quanto si immagini; la loro natura restando oggetto di
interessi extralinguistici molto forti e non sempre distinguibili. In questo articolo
abbiamo cercato di ordinare tali moventi su più piani e ordini di priorità.
Anticipando le conclusioni diremo che i moventi che dominano in questo contesto
sono più spesso di natura politico-economica in senso stretto.
La persuasione che la scienza linguistica possa
essere piegata alle esigenze del politico è un dato costante nella prassi del
linguistica, finora ascritto, forse con troppa leggerezza, alle sole forme
estreme di manipolazione ideologica in senso nazionalista. Nostra convinzione è
che le deformazioni ideologiche della modernità si siano insinuate nel processo
scientifico dell'analisi e conseguente pianificazione linguistica fino a
metterne in crisi il paradigma stesso.
Alchimie del verbo.
Vogliamo iniziare indicando il complesso di cause
che, a nostro avviso, rappresentano la vera minaccia agli idiomi minoritari,
cioè le cause della loro deriva: esso è da ascrivere all'uso della lingua come instrumentum
regni, cioè all'uso della lingua in una sua certa valenza politica. Che
piaccia o no, a questo ambito vanno ascritte le categorie dominanti nella
maggior parte dei paesi con rivendicazioni linguistiche autonomiste.
Questa lettura può certo essere considerata
riduzionistica, ma ha il pregio di conferire una base concreta ed empirica alla
realtà culturale di un popolo, di far piazza pulita dell'ipocrisia legata al
mascheramento degli interessi economici nazionali e di spogliare le
rivendicazioni culturali di un valore sacrale ingiustamente usurpato.
In prima battuta, è possibile indicare la causa del
vantaggio politico-economico come predominante per moltissime aree o regioni
europee a forte rivendicazione autonomista, osservando una mappa delle
rivendicazioni linguistiche in Europa, e delle pianificazioni che (anche se non
sempre) ne conseguono. Questo, e fino a un certo punto, potrebbe essere
considerato nient'altro che un dato di fatto, una semplice constatazione: esite
una forte differenzazione culturale e, al contempo, esiste anche una
preponderanza economica. Le cose però sono più complicate: spesso esiste una
differenza di status economico e si fa di tutto perché esista anche una
differenza linguistica e culturale!
Il caso più
eclatante di questi casi è forse quello dei Balcani e della concezione, del
tutto arbitraria, delle tre lingue cosiddette "nazionali", croato,
serbo e montenegrino. Come risaputo[1],
esse si fondano tutte e tre sullo stesso dialetto slavo, lo štokavo, e
ci sono più differenze fra gli altri "dialetti" balcanici, che fra le
tre cosiddette lingue nazionali. La rivendicazione di una varietà piuttosto che
di un'altra, viene consumata a scapito delle reali differenze linguistiche
presenti sul territorio, la cui "divisione politica non rispetta per nulla
quella linguistica dialettologica"[2].
Ovviamente con innumerevoli conseguenze negative sui parlanti. La Croazia è da
sempre la regione più ricca dei Balcani. Questo non può essere ignorato.
Venendo alla penisola iberica, la terra di Spagna
pullula di chovinismi linguistici altrettanto forti. Ai catalani si sono
aggiunti, con finalità diverse, i galiziani, quindi gli aragonesi, e poi
praticamente tutte le altre autonomías...come fosse una moda! Il caso
più documentato è appunto quello catalano: il catalan è lingua autonoma
da molti secoli; parlata dalla borghesia catalana molto più che dal popolo, ha
sempre incarnato la volontà di indipendenza economica delle classi alte
della regione rispetto al Regno di Spagna. Il franchismo cercò di reprimere
queste istanze in tutti i modi. Paradossalmente, adesso che il governo di
Spagna è disponibile a concedere ogni tipo di autonomia culturale e linguistica,
sembra che non ci sia fine alla lista delle rivendicazioni catalane. A poco a
poco emerge il lato recondito della questione: essendo la Catalogna anche
la regione più ricca della Spagna l'aspetto delle sue rivendicazioni culturali
ha sempre più assunto un risvolto di separatismo economico.
La Republica Ceca è molto più ricca e
industrializzata rispetto alla Slovacchia. Questa regione ha ottenuto
l'indipendenza, sottolineando in prima istanza le diversità culturali e
linguistiche.
Il Nordest italiano è la parte politicamente più
potente e la più industrializzata d'Italia. Così gli aderenti al movimento
indipendentista della Lega Nord hanno ricercato le proprie radici celtiche
(sic!) o reto-romanze in alcune parlate diffuse fra Lombardia, Romagna e Veneto,
sforzandosi di parlare un complesso di lingue neolatine come simboli
d'autonomia culturale rispetto a Roma.
In altri casi, benché la questione del predominio
economico non entri in discusssione, le scelte di autonomia linguistica e la
richiesta di pianificazione che ne deriva lasciano quantomeno perplessi: ricordiamo
l'esempio del moldavo, riportato da M. Lorinzi al XVIII Congresso della Società
Linguistica Italiana[3]:
"il caso bizzarro e inquietante di una linguistica applicata o meglio
"piegata" all'esigenze del politico: la creazione del primo dizionario
moldavo-romeno, che dimostra nuovamente l'intrusione dell'extralinguistico, e
al limite il suo peso determinante nel processo di classificazione delle lingue
storiche"; e quello dell'Austria, che ha addirittura fatto una petizione
al parlamento europeo affinché l'"austriaco" venga riconosciuto
lingua a sé, distinta dal tedesco; e l'elenco potrebbe continuare...In altri
casi prevale ancora la dimensione classica, quella dello Stato-nazione
linguisticamente maggioritario, e che tuttavia sente minacciata la propria
unità e identità in senso lato. E' il caso della Turchia. Anch'essa ha
"efficacemente" applicato modelli di pianificazione linguistica, con
metodi alquanto discutibili. Comparando i suddetti casi c'è da chiedersi se
abbia ancora senso tener fermo alla distinzione fra lingue minoritarie e
maggioritarie. Se il maggioritario indica semplicemente l'oggettiva prevalenza
e influenza di una superiorità e di uno status, politico o economico o
territoriale, allora diremmo di no. Se tradendo le speranze baconiane il poetre
e tutto, anche cultura, basta indivuare la sua forma storica specifica per
sapere qual è la sua cultura, e lingua che parla.
Tendiamo a distinguere un'altro gruppo di
rivendicazioni, i cui casi più conosciuti sono -a titolo esemplificativo-
quello basco, irlandese, kurdo, dove semmai l'ordine di priorità è invertito:
la questione linguistica è subordinata alle questioni della repressione tout
court:, religiosa, razziale e quindi culturale della popolazione. In questi
ultimi la pianificazione linguistica è esattamente quello che sembra, un
tentativo scientifico di salvare queste lingue (e i loro parlanti) dalla deriva
e dall'estinzione. Quesdti, in effetti, costituiscono dei modelli
"puri" di pianificazione, cui si potrebbe fare riferimento in senso
astratto. A loro si possono forse aggiungere, ma con le dovute distinzioni, le
rivendicazioni degli Indios americani.
Anche da questa breve e incompleta casistica è
possibile comprendere che c'è pianificazione e pianificazione, e che
un'applicazione nel contesto sbagliato può risultare una rischiosa alchimia.
E in America Latina....?
Per i linguisti di tutto il mondo l'unità del
castigliano in America Latina è apparsa come una sorta di miracolo.[4]
E in effetti il castigliano è più disomogeneo in territorio spagnolo che non in
tutto il territorio latinamericano.
L'inglese coloniale non ha avuto la stessa sorte: in
molte ex-colonie come le Antille si è creolizzato, cioè si è letteralmente fuso
con l'olandese, il francese e le lingue bantu degli schiavi africani; in
altre ha subìto la pidginizzazione (una specie di semplificazione estrema,
tipica di alcuni Stati dell'Africa). Va
detto che gli inglesi non si curavano molto di interferire sulle
differenti culture a loro soggette, né sulla loro religione né sulla lingua, in
questo simili agli antichi romani, convinti che l'elemento pragmatico riferito
alla lingua dominante, ai rapporti di potere e al commercio avrebbe finito per
prevalere in ogni caso -ciò che infatti, a livello globale, è stato.
La corona di Spagna invece mise in prima linea le
questioni culturali, di costume, e soprattutto quelle religiose; cosicché la
politica coloniale ha progressivamente annientato tutti i veicoli sociali della
conservazione linguistica, in particolare quello religioso, relegando l'idioma
originario alle sole relazioni private, e poi neanche a queste.
Alla luce di tutto ciò, e se si considera la quantità
di popolazione indigena messa in silenzio durante e dopo il dominio spagnolo,
forse il successo latinoamericano ci appare meno miracoloso... Ricordiamo le
parole con cui Borges "salutò" i primi tentativi di riconoscimento
indigeno all'epoca di Perón: "Se andremo avanti di questo passo, presto nei
licei si insegnerà il quechua e il mapuche, anziché il latino e
il greco".
Non ci risulta che in Argentina si studi molto latino
e greco, come invece avviene ancora nei licei d'Europa, invece certamente le
lingue indigene non vengono insegnate se non in rari casi.[5]
Ci auguriamo che aumentino.
Sganciamento necessario.
L'unica posizione seria che il linguista può assumere
rispetto al ruolo della pianificazione "politica", è invitare li
politico a cercarsi altrove i suoi pretesti, e a dichiarare apertamente le
ragioni che lo inducono alla rivendicazione dell'autonomia linguistica. Cosa
purtoppo inconciliabile con la sua attuale vocazione, con la professione di una
"radicale diversità", di una netta distinzione culturale, linguistica
e religiosa, insomma di un adeguato apparato ideologico etnicista che solo
permette di fa confliggere i popoli in senso nazionalistico (o
micro-nazionalistico)[6].
In ciò le difficoltà di comunicazione e le oggettive differenze
linguistico-culturali possono giocare un ruolo non indifferente.
Ecco perché, rispetto alla pianificazione
linguistica, non ésito a parlare di crisi e fallimento.
Dobbiamo prendere atto del fallimento del
progressismo culturale -con speciale riferimento alla dialettica auspicata fra
potere e sapere, filo rosso -probabilmente da Bacone in poi- di gran parte
delle teorie cositutive del pensiero democratico-liberale.
Ma dobbiamo però prendere anche atto che dalla crisi
che ormai investe l'intero sistema
scientifico della modernità, e in cui versa pertanto anche la
linguistica, questa potrebbe forse meglio di altre discipline uscire, in quanto
dispone di una risorsa particolare: i parlanti,
gli "oggetti" stessi della sua analisi, in quanto soggetti
dell'agire sociale.
La questione fondamentale
Dètto molto, ma molto in sintesi, ciò che qualifica e
distingue una lingua si fonda sulla modulazione di categorie legate ai livelli
fonetico, morfosintattico e semantico-concettuale. Queste categorie si
esprimono attraverso regole (generative), dalle quali irradiano diversi modi di
concepire la struttura profonda della lingua e dei significati cui essa fa riferimento; in larga
misura attraverso la determinazione dei campi semantici e dei sistemi di
sovraordinazione. Alcune di queste caratteristiche appaiono obiettivamente meno
vulnerabili a un attacco esterno o interno; alcune altre, invece, per
definizione, sono estremamente sensibili alle contaminazioni e perfino allo
stravolgimento. Ma il sistema di sovraordinazione, i campi semantici, i
neologismi, il rapporto e la resistenza
ai linguaggi speciali (come quello burocratico) e all'inglese, tutto ciò
che in ultima istanza è appannaggio precipuo di una lingua, dovrebbe essere
coltivato, analizzato e articolato in forma libera da parte dei soggetti attivi
di questa lingua. Non strumentalizzati per finalità altre. In questo processo
la parte assegnata al linguistica è di servitore della comunità, quella
assegnata al politico è nulla. Altrimenti, e nel migliore dei casi, l'esito
linguistico sarebbe quello indicato da Hagège nella citazione ex ergo:
la creazione di stereotipi in cui si esprimono invaribilmente le stesse
nozioni e gli stessi oggetti comuni alla onnipresente cultura della
globalizzazione...che serviranno ai politici di turno per elevare barriere
tra la gente, secondo necessità.
Si può cogliere un primo fatto importante: il
pianificatore della lingua dispone in effetti di tutti gli strumenti e le
competenze per poter valutare il senso e la direzione delle richieste di
autonomia linguistica; ma sono competenze che il politico ignora e che non
vuole riconoscere se non per trarne immediato profitto. Il meccanismo è in
fondo lo stesso del monopolio dell'informazione -e infatti lingua e
informazione sono funzioni reciproche: non è possibile l'una senza l'altra; e
una lingua, come una notizia, ormai vive o scompare secondo il grado di
"pubblicità" che le viene accordato. Dove è il potere a decide chi o
cosa sia degno di essere rivendicato e protetto come elemento linguistico
minoritario.
Questa
dialettica, almeno in Europa e in questo momento storico, è orientata ancora
tradizionalmente all'identificazione di funzione linguistica e Stato nazionale,
e alla percezione dell’idioma nei sensi di una protolingua per un Protostato.
Ma è lo Stato, ovvero lo Stato-nazione, che nella modernità ovviamente viene
meno, perde di senso. Inoltre cambia il suo segno rispetto alle formazioni
sovranazionali. Se il principio di nazionalità fu percepito nell’Ottocento come
eversione dagli imperi multinazionali d’Europa (Impero austro-ungarico, Impero
Ottomano, Russia zarista)[7],
e perciò in tensione dialettica con questi ultimi, adesso il principio
federativo delle "piccole patrie" è semmai funzionale e promosso
dai fautori del nuovo Impero, ovviamente sotto la cappa linguistica
dell'inglese come lingua dominante e omnipervasiva.
Insomma la visione che sta dietro questa nuova "democrazia
linguistica" -e questa è la seconda tesi del nostro articolo- non si sta
dimostrando meno repressiva e sanguinaria di quella nazionalpopolare che l'ha
preceduta, e in effetti altro non è che la sua coerente continuazione.
Il fatto triste di questa "nuova" visione
del mondo linguistico, inteso appunto come instrumentum regni, è che,
oltre ad essere radicalmente fasulla sul piano scientifico, essa rende i
diversi idiomi -in virtù della distorsione concettuale e della manipolazione
dei meccanismi linguistici suesposti più che mai uguali fra loro. Fatto
obbiettivamente nuovo nella storia.
Se la differenza linguistica serve infatti solo a
differenziare modelli nazionalistici, la sua strutturazione ne risulterà
inquietantemente simile. La lingua come idola fori, simulacro, puro
pretesto.
Sembra dunque che nella pratica storicamente
documentabile, la pianificazione non possa obbiettivamente e
pragmaticamente focalizzare sui temi cruciali della propria disciplina senza
entrare in collisione con l'apparato politico.
Conclusioni
Molti linguisti si infuriano ad affermazioni come
quelle contenute in questo articolo, e ribadirebbero che non è compito del
linguista influire sull'uso e le modalità per cui una lingua esiste; che il
processo della concettualizzazione è comunque di pertinenza di un popolo e
della sua cultura in senso lato, non del linguista.
Noi crediamo che entro un margine discreto -e a un
certo, iniziale livello- sia invece di pertinenza di chi, per competenza ed
elezione, si trova direttamente coinvolto nel processo di elaborazione; cioè
del linguista chiamato alla pianificazione. E che quest'ultimo abbia a
riconoscere il suo un ruolo come decisivo, avendo ben chiare le proprie
responsabilità. Il suo problema attuale, nella misura in cui venisse posto
seriamente, sarebbe allora lo stesso teorico e pratico del filosofo e del
giurista (o anche del biologo della biodiversità); ciò che molto sommariamente
può essere definito come segue. Scelte che vanno a scomodare alcune categorie
fondamentali del piensro eoocidenate quali universale/particolare etc..Le
risposte pratiche possono essere varie a seconda dei campi di applicazione, ma
resta il punto centrale di come la linguistica possa liberarsi da un certo
condizionamento politico, e fare affidamento sulla forza persuasiva intrinseca
alla disciplina.
Concludendo, ribadiamo e precisiamo quanto sopra
affermato: la pianificazione linguistica è auspicabile -al di là delle
strumentalizzazioni- ma con l'augurio di una sua decisa inversione di segno:
mentre la sua utilizzazione, diciamo così, "ortodossa" comporta la
pianificazione rispetto alle mappe linguistiche individuate dalle burocrazie e
dalle parole d'ordine dei politici, la sua applicazione più funzionale dovrebbe
orientarsi alla comprensione delle derive politiche e culturali che
tecnocraticamente il potere intrattiene rispetto ai modelli linguistici in
generale. Liberando -o contribuendo a liberare- prerogative di tipo autònomo
nel senso di "autoderminazione dei soggetti", la linguistica apre la
strada a una maggiore e più sana tensione fra parlanti e amministrazione della
cosa pubblica. Il linguista dovrebbe dunque più decisamente riservarsi
l'iniziativa di intervenire o meno in un contesto linguistico, e addirittura
nella direzione opposta a quella sostenuta dalla propaganda del momento.
* Doctor en Filosofía del Lenguaje (Universidad
de Génova), Doctor en Investigación (Universidad de París-Saint Dénis), Master
Europeo en Biblioteconomía Informática (Universidad de Padova),
[1] cfr. GARDE, P., 1996, I Balcani, Il Saggiatore, Milano
[2] DELL'AQUILA, VITTORIO E IANNACCARO, GABRIELE (2004) La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni. Roma: Carocci
[3] Atti del XVIII Congresso della Società Linguistica Italiana, Modena 23-25 settembre 2004
[4] Ma che dire degli indiani delle first nations? La conquista linguistica del Nordamerica rappresenta forse un'eccezione alla prassi anglosassone, ma in quel caso le cose andarono ancora peggio: l'eliminazione delle lingue ha coinciso con l'eliminazione tout court dei parlanti: In sè rappresenta un estremo della prassi oppressiva.
[5] Vorrei ricordare che il guaraní (quello originario, non quello strano ma interessante miscuglio che ho sentito parlare alla Boca del Riachuelo) è una delle più pure lingue "sintetiche" rimaste in vita. Il guaranì costituisce uno dei tesori linguistici più preziosi del mondo, e dovrebbe essere tutelato.
[6] Del resto il nazionalismo è un'ideologia essenzialmente proiettiva (cfr. BALIBAR E., WALLERSTEIN I., “Razza, Nazione e Classe. Le identità ambigue”, Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma, 1996) che funziona proiettando (proiezione in senso psicologico), rovesciando sull'esterno, e di conseguenza suscitando nell'"altro" (con la propria ostilità) quei comportamenti negativi che appunto si paventano. Un meccanismo che, in ultima analisi, può essere ridotto alle sue componenti etologiche (cfr. LORENZ, Konrad, Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell'aggressività [1963], Adelphi, Milano, 1981)
[7] HAGÈGE, CLAUDE, Storie e destini delle lingue d'Europa, La Nuova Italia, Scandicci, Firenze 1995; Le souffle de la langue. Voies et destins des parlers d'Europe, Odile Jacob, Paris 1992, pp.295