LE MUTILAZIONI GENITALI
FEMMINILI (MGF):
LESIONE DEI
DIRITTI UMANI FONDAMENTALI DELLA DONNA.
DIMENSIONE
NORMATIVA, SANITARIA E SOCIALE *
Elisa Abbate**
Sommario: 1. Le mutilazioni genitali femminili (MGF)- 2. La consistenza del fenomeno- 3. Le MGF, esercizio del diritto di
libertà religiosa e limiti intrinseci ed estrinseci di essa- 4. La repressione penale delle MGF negli Stati
europei. La normativa ordinaria- 5. La normativa speciale- 6. L’esperienza
italiana- 7. La condanna delle MGF da parte della Comunità internazionale- Conclusioni
§.1 Le mutilazioni genitali
femminili (MGF)
Vi sono vari tipi di mutilazioni:
Secondo l'Onu esistono quattro
forme principali di mutilazione genitale femminile: la circoncisione , che è un'escissione della
circonferenza del prepuzio della clitoride, analoga alla circoncisione
maschile; l'escissione clitoridea;
l'infibulazione vera e propria, detta anche "circoncisione
faraonica" in cui vengono asportate, oltre al clitoride, anche le piccole
labbra; l'introcisione, abbastanza rara
e poco praticata, che consiste nell’imenectomia e nell’introduzione in vagina
di sostanze caustiche o erbe che causano il restringimento del lume vaginale o
l’ampliamento per favorire il parto, a seconda della “necessità”. L'infibulazione in Sudan è chiamata
"circoncisione faraonica", mentre in Egitto è detta
"circoncisione sudanese". È una vecchia storia: ogni paese tende a
dare la responsabilità al paese vicino delle cause e della provenienza di
qualche malattia o pratica negativa.
Il termine "infibulazione" però richiama qualcosa che non ha nulla a
che vedere né con l'Egitto né con il Sudan: deriva da “fibula”, una spilla che
veniva usata dai Romani per evitare che le mogli avessero rapporti sessuali con
sconosciuti mentre erano in guerra. Ma soprattutto, i Romani infibulavano le
schiave e gli schiavi per evitare che potessero avere rapporti sessuali perché,
com'è noto, la gravidanza era un elemento che riduceva l'attività lavorativa
delle donne: meno le schiave erano gravide, più potevano lavorare. Dunque, il
termine "infibulazione" è squisitamente latino ed europeo.
La circoncisione femminile
rappresenta un grave rischio per la salute delle donne e, oltre a metterne in
pericolo la vita, causa loro sofferenze ficiche.
Siffatte pratiche, operate asseritamente con l’intento di preservare la purezza, in senso lato e
l’integrità, anche morale della vittima, in realtà, annientano la personalità
della donna che la subisce, castrandone la sessualità e, in molti casi,
causandone la morte per setticemia o per AIDS. Nella migliore delle ipotesi le
donne riportano “solo” lesioni personali gravi, spesso ritenzione
urinaria, cistiti e talvolta infezioni gravi, malattie veneree, qualche volta
emorragie mortali.
La vittima deve sacrificare la sua integrità e la sua salute per
salvaguardare l’onore ed il ruolo sociale della sua famiglia, nulla importa se
i suoi diritti e la sua vita sono immolati per false usanze primordiali: la
convincono anche che questi sacrifici sono necessari alla famiglia, alla
nazione ed offerti a Dio. E’ praticata da mammane, figure di incerta
definizione: “streghe” o “sciamane” ed ostetriche/levatrici nel contempo. La
bambina (in alcuni luoghi anche neonata) viene immobilizzata su un tavolo, od
altro ripiano duro, e, senza l’uso di anestetici, le viene praticata
l’ablazione, parziale o totale, con coltelli, schegge di vetro od altri oggetti
contundenti, non sempre adeguatamente sterilizzati e usati per una pluralità di
vittime, mentre le mammane urlano frasi rituali apotropaiche e le danno
consigli. In molte culture viene collocata una scheggia di legno nella vagina
per facilitare la cauterizzazione delle ferite ed il passaggio dei liquidi
fisiologi, la ferita è suturata, a seconda delle culture, con fili di seta o
spine di acacia. Durante questo rito sotto la ragazza vengono arse delle erbe
aromatiche nell’erronea convinzione che ciò l’aiuti a far rimarginare le
lesioni alla vulva; al termine della “cerimonia” alla vittima sono legate ed immobilizzate le gambe, anche
per settimane e per 3-4 gg deve seguire solamente una dieta liquida. Anche nei
paesi più civilizzati queste pratiche vengono eseguite clandestinamente o tra
le mura domestiche dalle donne della famiglia dell’infibulanda o da medici
compiacenti, non sempre in luoghi adeguatamente sterilizzati, sì da favorire
ulteriormente la contrazione di infezioni anche violente.
Dal punto di vista storico, la pratica della
mutilazione genitale è molto antica, ma non esistono informazioni precise circa
la sua comparsa. La più antica fonte conosciuta, che registra la pratica della
circoncisione, è Erodoto, vissuto nel V secolo a. C. Egli afferma che
l'escissione era praticata dai Fenici, dagli Hittiti, dagli Etiopi e anche
dagli Egiziani. Anche Strabone, Aetius e Soramus sostengono che, a Roma e ad
Atene, la pratica era frequente ed aveva lo scopo di far diminuire il desiderio
sessuale femminile. Inoltre, alcuni archeologi asseriscono che le buone
condizioni di conservazione delle mummie egiziane testimoniano l'usanza della
clitoridectomia, cioè dell'escissione della clitoride femminile. Tutto ciò è
interessante perché in paesi attualmente islamici, come
A torto, dunque, la pratica è ascritta alla tradizione islamica.
Ed invero, nella principale fonte del diritto
islamico, ovvero nel Corano, non esiste traccia alcuna di una tale pratica.
Solo in alcuni «detti» (hadīth) o «racconti» del Profeta
Muhammad (Maometto), in alcune raccolte
, considerate, peraltro, poco autorevoli, se ne tratta[1].
Uno dei «detti» più significativi riporta i consigli che
Maometto darebbe ad una «tagliatrice di clitoridi»: «Taglia leggermente e non
esagerare», ed ancora, «La circoncisione è [pratica] sunnah per gli
uomini e makrumah[2]
per le donne. Sfiorate e non
sfibrate. Il viso diventerà più bello ed il marito resterà estasiato»[3].
Sebbene, tuttavia, non si tratti di pratica dettata o
suggerita dal Corano, oggi, presso i moderni giuristi islamici il giudizio
sulle mutilazioni femminili è essenzialmente positivo, non tanto perché
sorretto da motivazioni religiose,
quanto perché consigliate da presunte ragioni di carattere medico legate
alla pulizia ed igiene della donna[4]. In realtà la giustificazione spiega troppo.
E’ assai curioso che i giuristi si occupino di profilassi. Forse la difficoltà
degli uomini di diritto è data dall’imbarazzo di individuare il bene giuridico
da tutelare, sotteso alla pratica.
§.2 La consistenza
del fenomeno
In alcuni Paesi islamici (come, per es., l'Egitto), la donna
non circoncisa è chiamata nigsa, cioè impura, sporca[5]. In alcune etnie tale pratica costituiscono
condizione di accettazione nel gruppo sociale di appartenenza, all’interno del
quale può costituire anche un segno di distinzione, con la conseguenza che una
donna non escissa corre il rischio di essere esclusa e non accettata[6]. Attualmente le mutilazioni genitali femminili sono molto diffuse nel
Corno d'Africa.
Secondo l'Unione Nazionale delle Donne Eritree, circa il 90% delle
connazionali nel 2002 risultava mutilata, avendo subito una clitoridectomia,
escissione o infibulazione.
A giudizio dell´Organizzazione Mondiale della Sanità, in tutto nel mondo
sono tra 100 e i 140 milioni le donne che hanno subito l'amputazione del
clitoride o delle grandi labbra ed ogni anno sono a rischio circa 2 milioni di
bambine.
Si tratta, dunque, di un fenomeno imponente che non riguarda, ormai,
solo ampie, ma circoscritte zone del mondo.
L'incremento del fenomeno migratorio ha, infatti, determinato una
caratterizzazione multiculturale, di gran parte dei Paesi europei, con
l'inevitabile insorgere di problemi di compatibilità tra ordinamento giuridico
e pratiche, quali quelle delle MGF,
modellate su «un universo culturale e simbolico del tutto nuovo e per molti versi contrastante»[7]. Il problema, ovviamente, si è posto anche in
Italia dove, secondo stime attendibili,
vivono, ormai, circa 38mila donne infibulate o escisse e 20mila bambine
"a rischio", in quanto appartenenti a comunità in cui vengono
praticate tali mutilazioni.
Molte
donne chiedono al medico che le ha deinfibulate per farle partorire, di essere
richiuse, come impone la tradizione del loro paese d'origine; in altri casi, ci
si rivolge alle strutture sanitarie per riparare i danni dell'infibulazione. È
questo il caso delle bambine adottate in Italia da piccole, ma che avevano già
subito l'infibulazione. Per una donna legata alla propria
comunità d'origine non essere ricucita dopo il parto è un marchio di vergogna,
anche se vive a Roma o a Milano.
Il ripetersi di tali richieste, denunciando «un rapporto di soggezione
totale dei singoli alla confessione o al gruppo di appartenenza, mediante il
quale si giunge ad esigere dagli aderenti gesti o comportamenti che possono
violare basilari norme etiche, intaccare i più radicati legami affettivi e
familiari, contravvenire alle stesse norme penali»[8],
ha evidenziato il punto principale del contrasto tra ordine giuridico e
ordinamento confessionale, i quali rivendicano ciascuno la propria sovranità a
scapito dell'altro[9]
.
§.3 Le MGF, esercizio del
diritto di libertà religiosa e limiti intrinseci ed estrinseci di essa.
Di fronte ai casi di collisione tra precetto penale e precetto della
fede religiosa, a controverse forme di esercizio del diritto di libertà
religiosa che determinano l'integrazione di fattispecie incriminatrici[10],
il penalista italiano è stato chiamato a confrontarsi con temi di indubbia
delicatezza: dal rilievo attribuibile alla motivazione religiosa della condotta
illecita, alla duplice questione dei limiti in cui la libertà religiosa può
scriminare fatti posti in essere dal singolo credente e della misura in cui la
motivazione religiosa può influire sulla rimproverabilità dell'autore del
reato.
Sovente, infatti, gli appartenenti a religioni minoritarie presenti in
Italia, nei casi di conflitto tra precetto penale e imperativo religioso[11]
, invocano, come
scriminante, alla stregua della libertà di culto, caposaldo del nostro
ordinamento costituzionale, ispirato ai principi di laicità e di pluralismo
religioso, il diritto sancito dall'art.
19 della Carta costituzionale, secondo cui “tutti
hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi
forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato
o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon
costume”.
A tale diritto, tuttavia, sono posti due limiti. Il primo è un limite
interno, di carattere generale, rappresentato dalla contrarietà dei riti al
buon costume. La garanzia costituzionale è da intendersi come limitata
dall’ordine pubblico, inteso come complesso di principi di costume e di
coscienza sociale, a garanzia del rispetto dei diritti personalissimi e delle
istituzioni pubbliche e non, restrittivamente, come morale sessuale o comune
senso del pudore[12] Il secondo limite è
di carattere esterno e deriva dal bilanciamento con altri diritti di rango
costituzionale: un profilo che assume particolare significato sul piano applicativo.
Trattandosi di diritto previsto dalla Costituzione, i limiti esterni
all'esercizio della scriminante della libertà religiosa dovrebbero, infatti,
trovarsi nella stessa Carta fondamentale, per salvaguardare altri diritti o
interessi, meritevoli di protezione.
Nel caso delle MGF il limite esterno invalicabile all’esercizio della
libertà religiosa, nelle forme in questione, è costituito dal contrasto con un interesse di predominante
rilievo costituzionale, incorporato nell'oggettività giuridica della norma
penale. Il bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice, nel caso di cui si
tratta, «si identifica con un interesse
di preminente rilievo costituzionale (basti pensare all'art. 2 Cost.); in modo
tale che l'esercizio del diritto di libera professione religiosa, nel momento
in cui - pur nel rispetto dei limiti intrinseci posti dall'art. 19 Cost. - urta
con altri interessi e beni costituzionalmente e direttamente protetti, rispetto
ad essi preminenti e che rientrano nell'oggettività giuridica della norma
penale conflittuale, non può avere alcuna efficacia scriminante in quanto
trattasi di un esercizio che avviene superando i limiti esterni che presiedono
alla corretta e rilevante sua estrinsecazione»[13]
In termini più espliciti l'esercizio del diritto di libertà religiosa
viene ad essere legittimamente limitato e circoscritto ab externo da
norme penali poste a tutela di interessi preminenti (o, almeno, di pari rango),
sul piano dei valori costituzionali, quali,in primis, i c.d. diritti
personalissimi dell'individuo, di cui all'art. 2 Cost.
A ciò si deve aggiungere che, in linea di principio, la collisione con
prevalenti interessi costituzionali determina, in sede di bilanciamento, la
restrizione, non già la soccombenza totale dell'interesse tutelato dal diritto,
che deve, ove possibile, trovare forme «residuali» e «condizionate» di
legittimo esercizio.
Le MGF, dunque, si rivelano, oltre che contrarie al buon costume,
certamente lesive dell'inviolabile primato della dignità e dell'integrità
fisica della persona (oltre che, nei casi più gravi, in contrasto con l'art. 5
c.c).
Rimane da verificare se, nello specifico ambito in esame, la libertà di
religione debba essere sacrificata in toto o possa trovare uno spazio
residuale di legittimo esercizio.
Un grande maestro del diritto
penale italiano scriveva che «le lesioni sono legittimate quando la legge
le comanda o le autorizza, come nei casi in cui impone o consente l'uso delle
armi contro le persone o di qualsiasi altro mezzo per impedire determinati eventi.
I riti di determinate religioni, in quanto queste
siano ammesse nello Stato, possono legittimare quelle lesioni personali che
siano compatibili col nostro ordinamento giuridico generale e che i riti
medesimi impongano, come, ad es., la circoncisione degli Ebrei»[14].
Facendo, allora, riferimento all’eccezione
dell’ammissibilità della pratica della circoncisione, in quanto ritenuta pratica simbolica, in
Italia si è aperta, alla fine degli anni
novanta, una discussione intorno alla
proposta di “sterilizzare” le pratiche di mutilazione, rendendole
sostanzialmente simboliche e attuandole in ambiente medico, al riparo dai
rischi sanitari che la clandestinità comporta. La regione Toscana ha escluso la
possibilità di “infibulazione dolce” o “sunna rituale”, secondo la proposta del
medico Omar Abdulcadir di Careggi, con la risoluzione approvata il 3 febbraio
del 2004, con la quale peraltro ha aperto un tavolo di confronto con le donne
immigrate e gli operatori sociali, sanitari ed educativi al fine di “promuovere
e sperimentare politiche efficaci anche innovative” dirette a combattere con la
dissuasione le pratiche di mutilazione ,a conoscere il fenomeno in Toscana e
promuovere progetti di cooperazione”. Danilo Zolo ha espresso perplessità sulla
affrettata chiusura del dibattito sulla “sunna rituale”, a fronte della
pacifica accettazione della circoncisione che, pur non essendo immune da
controindicazioni mediche, è praticata dal Servizio sanitario nazionale. Ma la
decisa opposizione delle donne, non solo italiane, ha ribadito con forza
l’importanza di preservare l’inviolabilità del corpo, in ogni caso e senza
eccezioni, sottolineando come la pratica non fosse necessitata da ragioni
profilattiche o terapeutiche, o per evitare un incombente pericolo o grave
pregiudizio per la donna (o per la bambina, come spesso succede), ma si
trattasse, invece, di atti dal forte valore simbolico di sottomissione e di
dichiarata impurità di genere.
Trattandosi di pratiche, comunque, degradanti, esse vanno
accomunate in una valutazione di disvalore radicale, senza indulgere a presunti
relativismi culturali[15]. Esse, in tutte le forme in cui si manifestino[16],
ben possono essere accostate a forme di vera, terribile tortura e, comunque, costituiscono una violenza non
conciliabile con la dignità della persona, lesive dei diritti di parità ed
espressione di una volontà di conservazione della donna in una posizione di
subalternità.
Il dibattito, anzi, ha accelerato
l’approvazione di una specifica normativa penale per rimediare alle incertezze nell'applicazione del diritto penale
e al disagio nel condannare, avvertito non solo in Italia.
Nella legislazione italiana non esistevano norme specifiche
che vietassero la mutilazione genitale e in caso di denuncia venivano applicati
gli articoli 582 e 583 del Codice Penale relativi alle lesioni personali, la
cui applicazione, per i pochissimi casi che emergevano, oscillava tra
l’esemplarità della sanzione e la comprensione umana. I nostri giudici hanno cercato di evitare di sanzionare con particolare gravità il
comportamento dei genitori nel caso di escissione delle figlie (come nel caso
di un immigrato egiziano condannato per lesioni volontarie gravi, per aver
fatto subire ai propri figli infibulazione e circoncisione, da cui erano
derivate ulteriori conseguenze dannose)[17]:
le condanne sono miti (inclusive dei benefici della sospensione condizionale
della pena e della non menzione), e vengono motivate con la necessità di
evitare alle vittime gli ulteriori effetti traumatici dell'allontanamento del
genitore.
§.
4 La repressione penale delle MGF negli
Stati europei. La normativa ordinaria
Nella maggior parte dei Paesi europei non
sono state emanate leggi speciali contro le mutilazioni
genitali femminili. Queste, ad ogni modo, costituiscono pur sempre delitti
contro la persona, alla luce della disciplina penale generale contenuta nei
rispettivi codici penali [18].
Così, in Austria, è applicabile l'art. 83 §1
dello Strafgesetzbuch..Allo stesso modo il codice penale di Danimarca[19]
(§ 245 n. 2), Germania (art. 223), Grecia (art. 309 ss.), Lussemburgo (art. 392
ss.), Olanda[20]
, Portogallo (art. 144), Spagna (art. 147), Svizzera (art. 122), puniscono le MGF in quanto lesioni
corporali. Nell’esperienza giudiziaria francese - ove la
criminalizzazione di tali pratiche è iniziata a metà degli anni '80, con
l'inquadramento nella fattispecie di lesioni - si oscillava e si oscilla tra la
richiesta di condanne esemplari e la percezione della problematicità della
carcerazione dei genitori che sottopongono la figlia alla deprecata pratica: le
pene lievi irrogate indicano un compromesso tra la condanna formale da parte
dello Stato e l'assoluzione sostanziale dei genitori[21].
Pur essendo stati introdotti nel codice
penale gli articoli 222.9 e 222.10, dedicati alla repressione delle mutilazioni anche non sessuali -in sostituzione del
preesistente art. 312 c.p. anch'esso
dedicato alle mutilazioni- che prevede pena di cinque anni di reclusione, se il
fatto è commesso su un minore di quindici anni ed è di venti, se autore del
delitto è un ascendente legittimo o naturale della vittima, sembra che la
consapevolezza, da parte dei giudici francesi, del sentimento di doverosità che
spinge i genitori a sottoporre le figlie a mutilazione, abbia portato a
sanzionare questi comportamenti, con pene nel complesso piuttosto lievi [22],
pur essendo
§.
5 La normativa speciale.
Finora quattro Paesi europei, Svezia,
Inghilterra, Norvegia e Italia hanno approvato leggi speciali contro le mutilazioni genitali femminili.
Il risultato complessivo è stato quello di una maggiore consapevolezza da parte
dei gruppi di immigrati coinvolti nel Progetto, degli effetti dannosi sulla
salute della mutilazione genitale, con il conseguente formarsi di un
progressivo mutamento di atteggiamento nei confronti di questa pratica.
In Norvegia la legge è entrata in vigore nel
1998.
In Inghilterra, le mutilazioni
sessuali ricadono sotto il divieto del Prohibition of Female Circumcision Act,
entrato in vigore nel 1986. Qui è stato
emanato nel 1989 anche il Children Protection Act, che completa il quadro di
misure a tutela delle minori a rischio di MGF, il quale prevede l'intervento dell'autorità
con un campo di azione piuttosto ampio: il giudice può proibire ai parenti di
compiere atti senza la specifica autorizzazione del tribunale, oppure, nei casi
più gravi, disporre che la bambina sia allontanata dalla famiglia, qualora
questa sia l'unica misura per la sua protezione. In particolare, ciò potrebbe
rendersi opportuno, in quei casi in cui si sospetta che la bambina possa essere
condotta all'estero per essere sottoposta a mutilazione[28].
§.6
L’esperienza italiana
Riguardo all’Italia, si è precedentemente
accennato all'interrogativo se questi comportamenti possano trovare
legittimazione attraverso la tutela che
La legge rappresenta
il punto di approdo di un lungo iter parlamentare iniziato sin dalla
XIII Legislatura, che aveva visto pure un autorevole pronunciamento del
Comitato Nazionale di Bioetica[30]
. La
strategia della nuova legge segue un approccio non meramente repressivo, ma
«integrato», giacché, come si precisa sin dall'art. 1, essa, «in attuazione degli
articoli 2, 3 e 32 della Costituzione e di quanto sancito dalla Dichiarazione e
dal Programma di azione adottati a Pechino il 15 settembre 1995 nella quarta
Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne», vuole assolvere al
duplice scopo di dettare «le misure necessarie per prevenire, contrastare e
reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei
diritti fondamentali all'integrità della persona e alla salute delle donne e
delle bambine». E dunque attraverso una maggiore severità, la legge, facendo proprie le istanze rappresentate anche in ambito
parlamentare[31] , si prefigge lo scopo di
prevenire le pratiche di mutilazione, cercando anche di eliminare fin
dall'origine, l'ignoranza dei propri diritti, alla base di queste orribili
pratiche. Alcuni profili sono, però, ancora lasciati in ombra dalla
legge. Uno di questi riguarda l'ipotesi in cui un
sanitario, per «consentire il parto o per altra ragione medica», debba
procedere «a riaprire la vagina nella parte suturata» e magari «all'esito
dell'intervento, provveda a risuturarla riportandola nello stato originario
(c.d. reinfibulazione)»[32]
. La
difficoltà consiste nel fatto che l'intervento di ripristino, di per sé, non
cagiona una mutilazione, essendosi questa già prodotta in passato. E tuttavia,
la dottrina non dubita circa il fatto che anche siffatta condotta sia
incriminata, giacché «non sembra dubitabile che questo [intervento] cagioni
“effetti dello stesso tipo”, ponendo le condizioni per il perpetuarsi delle
condizioni pregiudicate, conseguenti alla primigenia mutilazione»[33]
Ma la legge contiene anche una parte
propositiva.
Oltre all’inasprimento del profilo
repressivo, prevede una serie azioni di carattere culturale e formativo dirette
alle comunità che ancora praticano le mutilazioni e che sono residenti nel
nostro paese.
Lo Stato si impegna ad avviare una serie di
campagne di informazione rivolte agli immigrati e inoltre, nei paesi d'origine
e nei consolati italiani all'estero, al momento della concessione del visto, ci
saranno funzionari incaricati di far conoscere la legge italiana sui diritti
delle donne e delle bambine. E’ previsto inoltre un coordinamento delle
attività di informazione, sensibilizzazione culturale e prevenzione promosse
dagli enti locali nonché delle attività di formazione del personale sanitario
che si trova spesso ad affrontare situazioni complesse, sia sul piano clinico
che psicologico, legate alla realtà dell’infibulazione. Ma per porre fine a questa pratica inumana,
la battaglia da vincere è soprattutto quella socio culturale nei confronti
delle comunità provenienti da Paesi interessati dal fenomeno, attuando un
programma di informazione nei paesi africani, nell'ambito della cooperazione
allo sviluppo, cercando la collaborazione delle autorità religiose e politiche
delle varie tribù. Su questo fronte
l’Italia è già impegnata a livello internazionale, considerando che questo
problema costituisce uno dei possibili banchi di prova dei rapporti di tutti
gli Stati con i culti di recente insediamento, rispetto ai quali, in ragione
della loro assenza nelle tradizioni del paese, è più arduo comprendere quali
debbano essere i limiti di compatibilità tra pratica rituale e paradigma della
persona»[34] È stato,
d’altra parte, osservato che «un Dieu qui
exige de ses croyants de se mutiler pour les marquer, par leur sexe, comme on
marque du bétail, est un Dieu d'une morale douteuse. On peut comprendre que la
circoncision masculine ou féminine, comme toute autre intervention médicale,
puisse être justifiée dans des cas spécifiques et sur indications médicales
individuelles. Mais mutiler les enfants, garçons ou filles, et en prétendant
leur faire du bien, relève du cynisme et du fanatisme» e che «on ne peut, à cet
effet, que condamner l'attitude des organisations internationales et
non-gouvernementales pour la dissociation de ces deux types de mutilations,
légitimant de la sorte la circoncision masculine»[35].
§.
7 La condanna delle MGF da parte della Comunità internazionale.
L’operato dei singoli paesi sull’argomento,
d’altra parte, si innesta perfettamente sulla consapevolezza ormai
generalizzata in tutta la comunità internazionale, circa il fatto che la violenza, qualsiasi tipo di violenza,
contro le donne rappresenti una violazione dei diritti umani. Le numerose
convenzioni e dichiarazioni esistenti lo testimoniano.
Secondo
Nello specifico, facendo riferimento ai
documenti, è doveroso citare:
1)
Dichiarazione
Universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea
generale delle Nazioni Unite, ove, pur non rintracciandosi riferimenti
espliciti al nostro tema, si rinvengono due articoli che costituiscono la base
per il successivo sviluppo della normativa pattizia, diretta alla condanna
delle MGF, laddove, in particolare, riconosce il diritto alla vita, alla
libertà e alla sicurezza personale (art. 3), inoltre è posto il divieto di
torture e di trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (art. 5).
2)
Patto
internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dalle
Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 3 gennaio 1976, che è
una delle Convenzioni stipulate al fine di tradurre le enunciazioni della
Dichiarazione in norme pattizie, giuridicamente vincolanti per gli Stati Parti. Alcuni articoli contengono obblighi che le
MGF violano in modo palese: si tratta del diritto all'autodeterminazione (art.
1), del diritto alla salute, con la precisazione che tutte le persone hanno
diritto al godimento del più alto grado raggiungibile di salute fisica e
mentale (art. 12).
3)
Patto
internazionale sui diritti civili e politici: è questo il secondo Accordo
internazionale che ha visto la luce per dare attuazione alle disposizioni della
Dichiarazione. Adottato dall'Assemblea generale il 16 dicembre 1966 ed entrato
in vigore il 23 marzo 1976[36], contiene diverse disposizioni rispetto alle
quali le MGF
si pongono in evidente contrasto: diritto alla vita (art. 6), il divieto di
torture e trattamenti crudeli, inumani o degradanti (art. 7), il divieto
d'interferenze arbitrarie o illegittime nella sfera privata delle persone (art.
17), il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art.
18), il diritto del fanciullo a quelle misure protettive richieste dal suo
stato minorile (art. 24).
4)
Convenzione
per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, entrata in
vigore il 4 gennaio 1969, che garantisce una serie di diritti civili, sociali e
culturali, fra cui il diritto alla sicurezza della persona e alla protezione da
parte dello Stato contro la violenza o le offese corporali, inflitte sia dai
governi ufficiali sia da qualsiasi istituzione o gruppo (art. 5).
5)
Dichiarazione
e programma d'azione della Conferenza internazionale sulla popolazione e lo
sviluppo tenuta a Il Cairo nel settembre 1994, che invoca fortemente la
giustizia e l'uguaglianza delle donne e fortemente ed espressamente stigmatizza
le MGF.
Quanto alla specifica tutela
internazionale dei diritti della donna e del fanciullo, di grande
importanza sono
A)
Convenzione
sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne[37]:
entrata in vigore il 3 settembre 1981, costituisce un'importante base
internazionale per l'istituzione di misure per l'eliminazione delle MGF, poiché
esprime la condanna della comunità internazionale nei confronti di pratiche o
costumi dannosi per la salute della donna. In particolare, impegna gli Stati
Parti ad «includere il principio dell'uguaglianza fra uomo e donna nelle
rispettive Costituzioni...» e «a prendere tutte le appropriate misure incluse
quelle legislative, per modificare o abolire leggi, regolamenti, costumi e
pratiche, che costituiscano discriminazione contro la donna» (art. 2), ed
ancora a «modificare i modelli sociali e culturali di condotta di uomo e donna,
con l'obiettivo di realizzare l'eliminazione dei pregiudizi e costumi e di
tutte le altre pratiche basate sull'idea dell'inferiorità o della superiorità
di uno dei sessi o su ruoli stereotipati per uomini e donne» (art. 5).
B)
Dichiarazione
sull'eliminazione della violenza contro le donne del dicembre 1993, che esprime
la condanna delle N.U. della violenza contro le donne. Essa richiama
espressamente la questione delle MGF: «la violenza contro le donne dovrà
essere intesa a comprendere, ma non a limitarsi...alla violenza familiare,
fisica, sessuale e psicologica, compresa... la mutilazione genitale femminile[38] e le altre pratiche tradizionali dannose per
le donne» (art. 2).
C)
Dichiarazione
e Programma d'azione di Vienna, della Conferenza mondiale delle N.U. sui
diritti umani, del giugno 1993: essa
segna un momento di importante riflessione circa gli strumenti
predisposti e i risultati raggiunti nella tutela dei diritti umani
fondamentali, giacché prosegue la politica di riconoscimento dei diritti e
delle libertà fondamentali della donna e di condanna di ogni forma di violenza
su di essa; in particolare esprime il ripudio di tutte le forme di violenza
contro la donna, inclusa quella risultante da pregiudizi culturali, in quanto
incompatibile con la dignità e il valore della persona umana (parte I, art.
18).
Qui è inoltre contenuta una serie di
raccomandazioni dirette agli Stati, finalizzate all’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione contro le donne e tutte le forme di violenza ed abuso
sui fanciulli, compresi i costumi e le pratiche dannose per le fanciulle (parte
II, art. 45-53).
D)
Dichiarazione
e piattaforma d'azione di Pechino, della Quarta Conferenza mondiale sulle
donne, del settembre 1995, ove è espressa una forte condanna delle MGF, la cui
gravità viene messa in relazione alla violenza sessuale ed economica alle quali
le donne sono assoggettate (art. 39).
E)
Dichiarazione
dei diritti del fanciullo, delle N.U. del 1959, che con il nono
principio protegge il fanciullo da ogni forma di crudeltà, mentre con il decimo
stabilisce che i fanciulli devono essere protetti da pratiche che possano
promuovere discriminazioni razziali, religiose o di altro genere.
F)
Convenzione
sui diritti del fanciullo, delle N.U., entrata in vigore il 2 settembre 1990[39],
della quale in particolare vanno segnalate due disposizioni: la prima impegna
gli Stati parti al rispetto della libertà di pensiero, di coscienza e di
religione del fanciullo (art. 14), la seconda stabilisce che «gli Stati parti
prenderanno tutte le effettive e appropriate misure per abolire le pratiche
tradizionali pregiudizievoli alla salute dei fanciulli» (art. 24).
Occore, infine, fare riferimento agli
strumenti internazionali regionali, tra i quali si ricordano:
1)
Due
documenti stilati dagli Stati africani membri della Organization of African
Unity:
2)
Dichiarazione
dei diritti e delle libertà fondamentali adottata dal Parlamento europeo il 12
aprile 1989, che afferma che nessuno può essere sottoposto a trattamenti
inumani o degradanti (art. 2).
3)
Convenzione
quadro per la protezione delle minoranze nazionali adottata dal Comitato dei
ministri del Consiglio d'Europa nel febbraio 1995[40],
la quale, richiamata la convinzione degli Stati membri che una società
pluralistica e democratica deve rispettare l'identità etnica, culturale,
linguistica e religiosa delle persone appartenenti alle minoranze nazionali,
obbliga gli Stati tra l'altro ad astenersi da politiche o pratiche di
assimilazione di appartenenti a minoranze nazionali contro la volontà degli
stessi, senza pregiudizio di una politica generale di integrazione[41]
(art. 5).
4)
Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950 dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, la
quale dispone che nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamento o
punizione inumana o degradante (art. 3). Sempre in ambito europeo va ricordata
l'iniziativa assunta dal Parlamento europeo con
Ed infine, Il 9 ottobre 2006
nel rapporto dell’Onu per la prima volta la violenza contro le
donne viene definita a chiare lettere come “violazione dei diritti umani”, di
talché i governi hanno l’obbligo di tutelare “chiunque sia il responsabile
della violazione”, compresi i governi stessi. Secondo Charlotte Bunch, una
delle esperte che hanno redatto il rapporto, la violenza è sia causa che
effetto delle disuguaglianze di genere. Il rapporto dà conto di tutte le
iniziative per combattere la violenza, rilevando come quelle realizzate dalle
organizzazioni delle donne siano state “promettenti”, mentre sono state molto
sporadiche, carenti e “inadeguate” le iniziative degli organismi governativi.
Le raccomandazioni finali del rapporto sono rivolte quindi soprattutto ai
governi degli stati membri.
Conclusioni
Il fatto che nonostante i divieti e la generale stigmatizzazione le
pratiche di mutilazione genitale femminile continuino ad essere praticate
segretamente, anche in Europa, dimostra come siano esse, nonostante il lavoro
di convincimento costante, continuino ad essere considerate, da parte di coloro
che le impongono e le eseguono, tratti integranti e distintivi della propria
identità culturale. Siffatto comportamento è indice della volontà di certi
gruppi di immigrati, di mantenere ferma la propria diversità all'interno delle
società d'accoglienza[42]
e la questione delle mutilazioni genitali femminili è solo uno
degli aspetti di maggior contrasto fra istituti e costumi propri di talune
comunità di immigrati, e i valori propri delle società ospiti[43].
Appare chiaro, quindi, come il risultato del sempre più intenso flusso
migratorio verso i Paesi dell'Europa occidentale sia stata la frammentazione
delle società in una costellazione di minoranze, le quali, in alcuni casi, pur
chiedendo un'integrazione sotto il profilo dei diritti di cittadinanza, restano
gelose della propria specifica identità e riluttanti a qualunque processo di
assimilazione sotto il profilo culturale, tanto che anche in Italia, come in
altre nazioni europee si sono verificati casi di mutilazione genitale
femminile, nonostante la contrarietà di questo costume con le norme penali.
Certo il pluralismo culturale è valore irrinunciabile, in quanto alla
sua esistenza è legata, ma è altrettanto vero che le mutilazioni
genitali femminili sono profondamente radicate nel costume delle società nelle
quali sono praticate, tanto da divenire parte integrante della concezione che
questi popoli hanno di sé.
Per questo, una politica improntata al rispetto della specifica identità
dell'immigrato, non può portare a consentire la prosecuzione di pratiche
culturali gravemente lesive del diritto alla salute, anch'esso riconosciuto e
tutelato dalla Costituzione e, come si è detto, alle Convenzioni
internazionali, e lesive comunque della
specifica identità delle giovani che vi sono sottoposte, in quanto volte ad
alterarne violentemente l'integrità psicofisica, e prive di una qualsiasi
giustificazione dal punto di vista igienico e sanitario. Va considerato poi,
che nella maggioranza dei casi, questo costume è eseguito su bambine di
tenerissima età, assolutamente non in grado di prestare un vero consenso
informato. Evidente è dunque il contrasto delle pratiche di mutilazione
genitale con i valori accolti e tutelati negli ordinamenti dei Paesi ospiti. Il
rispetto dei diritti fondamentali, primi fra tutti i diritti di libertà, devono
essere l'argine rispetto al quale vadano
misurate, affinché possano essere accolte, le istanze di apertura verso valori
e modelli culturali stranieri.
Lo stesso principio e cautela valgono anche relativamente al velo
islamico, il cui uso, come chiarisce
Onida, deve essere considerato irrilevante dall’ordinamento giuridico se non e
imposto da terzi allo scopo di attentare alla uguaglianza ed alla libertà
individuale in seno alla comunità[44]
*Relazione tenuta presso
[1] In una tradizione
conservata da un maestro dell'Islam, Ibn Hanbal, iniziatore di una delle
quattro scuole islamiche (la c.d. scuola hanbalita), la circoncisione è detta mandūh
(«raccomandata») per i maschi e sunnah («tradizionale») per le donne;
secondo un altro maestro musulmano, Al-Shāfi‘ī ed altri giuristi
(della c.d. scuola shafiita), sarebbe addirittura obbligatoria (wājib)
(G. Vercellin, Istituzioni del
mondo mussulmano, Torino, 1996, pp. 217, nt. 9. ). Per le scuole facenti capo ad Abu Hanifa e
Malik Ibn Anas (rispettivamente fondatori delle scuole c.d. hanafita e
malikita), storicamente prevalenti, infine, sia la circoncisione maschile sia
quella femminile sarebbero pratiche lodevoli, ma non obbligatorie (Cfr. D. Atighetchi, Il contesto islamico:
problemi etico-giuridici e il dibattito in Egitto, in M. Mazzetti, Senza le ali. Le
mutilazioni genitali femminili, Milano, 2000; Aidos (a cura ) p. 41
ss.
[2] Ove per «sunnah»,
termine ricco di echi religiosi, deve intendersi un'azione conforme agli
insegnamenti ed all'esempio del Profeta o un'usanza diffusa ai suoi tempi,
mentre per «makrumah» un'azione meritoria, ma non obbligatoria (D. Atighetchi, op. cit.)
[3] Cfr. A. Bouhdiba, La sexualité en Islam,
Presses Universitaires de France 1986, 216, citato da D. Atighetchi,
La legge islamica e il corpo delle donne, in Il Mulino, 5, 1996,
p. 1000.
[4] A questo proposito, può
essere curioso notare che, in numerosi dialetti arabi, la parola utilizzata per
indicare l'operazione su giovani di entrambi i sessi è tạhara, la
cui radice thr implica un'idea di purezza: chiaro indizio che la
suddetta operazione sarebbe considerata come atto purificatorio (G. Vercellin, op. cit., p. 217, nt.
9.)
[5] Cfr. L. Favali, Fra legge e modelli ancestrali:
prime osservazioni sulle mutilazioni genitali in Eritrea, Torino, 2002., p. 47.
[6] Cfr. M. FUSASCHI, I segni del corpo, Milano 2003.
[7] Cavana, Nuove dimensioni della
cittadinanza e pluralismo religioso: premesse per uno studio, in La
cittadinanza. Problemi e dinamiche in una società pluralistica, a cura di
Dalla Torre e D'Agostino, Torino, 2000, 65 (sulla nozione di pluralismo
religioso v., in particolare, 112 e ss.); sul punto, v. anche Cardia,
voce Religione (libertà di), in Enc. dir., Agg., II, Milano,
1998, 917.
[8] Sulle problematiche giuridiche connesse
all'immigrazione in Italia di cittadini di culture e religioni diverse, v. Guazzarotti,
Giudici e Islam. La soluzione giurisprudenziale dei «conflitti culturali»,
in Studium Iuris, 2002, 871 e ss.
[9] Cfr. Del Re, Il reato determinato da
movente religioso, Milano, 1961, 61; sulle ipotesi più significative di
conflitto tra imperativo civile e precetto religioso, v. Moneta,
Obiezione di coscienza e riconoscimento delle esigenze religiose del
cittadino, in Scritti in memoria di D. Barillaro, Milano, 1982, 326
e ss.
[10] Come ha rilevato Lanzi, La scriminante dell'art. 51
c.p. e le libertà costituzionali, Milano, 1983, 87, «le fattispecie penali
rispetto alle quali un siffatto esercizio può venire in considerazione sono le
più svariate, in quanto, evidentemente, l'esercizio del proprio credo religioso
abbraccia tutte le manifestazioni di pensiero e di comportamento attraverso le
quali si svolge la vita del singolo credente, sicché il conflitto tra regole
della propria fede religiosa e disposizioni dello stato di diritto di
appartenenza può investire i più disparati settori di operatività
dell'ordinamento. Quantomeno a livello teorico, il problema si può porre in relazione
a numerosissime fattispecie penali, giacché può esservi addirittura una totale
conflittualità virtuale tra due ordinamenti quale quello religioso e quello
penale (...)»; sulle implicazioni del diritto di professione religiosa
nell'ambito del diritto penale, v. Musselli, voce Libertà religiosa e
di coscienza, in Dig. scien. pubb., XII, 222 e s.
[11] Cfr. Viganò, Commento all'art. 51 c.p.,
in Codice penale commentato, a cura di Marinucci e Dolcini, Parte
generale, Milano, 1999, 437 e ss.; sulla non assimilabilità del reato per
ragioni di «coscienza» allo stato di necessità, v. Rudolphi,
Die Bedeutung eines Gewissenentscheides für das Strafrecht, in Festschrift
für H. Welzel, Berlin, 1974, 631 e s.
[12] Sul punto, v. D'Avack, voce Libertà
religiosa (dir. eccl.), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 598 e s.
[13] Lanzi, La scriminante dell'art. 51
c.p., cit., 88.
[14] V. Manzini, Trattato di diritto penale
italiano, VIII, Torino, 1985, p. 215, nt.
[15] Così E. CESQUI, La giurisdizione e i conflitti culturali. ll diritto i diritti e il
giudice nella società multiculturale, in Questione giustizia, 2005, p. 750
[16] L’OMS individua quattro categorie di
mutilazioni genitali femminili: l’escissione, l’infibulazione, la clitoridectomia ed un’altra serie di pratiche
assimilabili
[17] Cfr. Trib. Milano 25 novembre 1999, Dir.
immigr. cittad., 2000, 148; sul punto v. Floris, Appartenenza
confessionale e diritti dei minori. Esperienze giudiziarie e modelli di
intervento, in Quad. dir. e pol. eccl., 2000, 207.
[18] Le informazioni che seguono, salva diversa
specificazioni, sono tratte da Proceedings of the expert meeting on female
genital mutilation (Autori vari), Ghent-Belgium, 5-6 Novembre 1998. Gli
atti di questo convegno sono reperibili all'indirizzo Internet
http://www.fgm.org/ProceedExpert.html.
Talemeeting si è svolto con lo scopo, tra l'altro, di formulare un
codice di comportamento per il personale sanitario valido nel contesto europeo
ed è frutto dell'iniziativa del programma DAPHNE, dell'Unione Europea, la quale
ha stanziato una parte del bilancio del 1997 per la progettazione di misure
contro la violenza su donne, giovani e bambini. In questo contesto è sorto il
progetto DAPHNE, alla cui iniziativa si deve appunto il convegno.Grassivaro
Gallo, Cortesi, Linee guida per il personale medico di fronte
a casi di mutilazione genitale femminile (MGF) (Messa a punto delle iniziative
a livello nazionale ed internazionale), in Quaderni di ricerca n. 5,
ORIV - Osservatorio Regionale Immigrazione Veneto,Venezia, dicembre 1999,
3.
[19] Il ministro della sanità danese,
nell'ottobre
[20] Nel novembre 1998, risultava
pendente in Olanda una richiesta di asilo di una donna originaria della Sierra
Leone, perché sua figlia era a rischio di MGF. Va però rilevato che in Olanda il
Governo ha avanzato una proposta di legalizzare la forma più lieve di
mutilazione, quella definita « sunna», ciò nel tentativo di prevenire le
forme maggiori di escissione. L'associazione nazionale dei ginecologi si è però
opposta a questa legalizzazione. Livio, Le mutilazioni genitali
femminili nel mondo occidentale: ...e l'Italia sta a guardare, in Le
mutilazioni sessuali femminili, 2000,80.
[21] Cfr. Facchi, L'escissione: un caso
giudiziario, in Soc. dir., 1992, 111 e ss.; Id.,
L'escissione: pratiche tradizionali e tutela delle minorenni, in Dir.
pen. e proc., 1996, 502 e ss.; Toller, Un seminario di studio sulle
mutilazioni sessuali femminili, in Del. e delle pene, 1993/2, 233 e
ss.
[22] Cfr. R. Verdier, Entre
l'integration et l'exclusion.
[23] La donna aveva invocato
[24] Trib. Adm. Lyon,
12 juin 1996, n. 96-00127.
[25] Secondo l'art. 27 bis della suddetta
ordinanza uno straniero non può essere allontanato, con destinazione verso un
Paese dove la sua vita o la sua libertà sono minacciate, o ove egli sarebbe
esposto a trattamenti contrari all'art. 3 della Convenzione europea sulla
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il quale
dispone che nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizione
inumana o degradante.
[26] Sembra che questa sia stata la prima
decisione di un tribunale di uno degli Stati membri del Consiglio d'Europa, a
ritenere la minaccia di escissione motivo valido per l'annullamento di un
provvedimento di espulsione. Tuttavia, in questo senso la pronuncia è stata
anche criticata, perché tale fattispecie non risultava, all'epoca, ancora
consacrata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo,
quale violazione dell'art. 3 della predetta Convenzione. H. Forteau, op.
cit.2. Famosa è anche la storia di A. che nel 1991 alla vigilia del
matrimonio, è fuggita in Francia, per evitare l'escissione, appellandosi alla
Convenzione di Ginevra, per vedersi riconosciuto lo status di rifugiata.
Dopo un primo rifiuto,
[27] La pena va dai due a dieci anni di
reclusione, per l'ipotesi di delitto aggravato, ovvero se il crimine ha
determinato pericolo di vita, o ha cagionato una grave infermità o è stato
eseguito con un comportamento particolarmente incauto, Grassivaro
Gallo, Cortesi, Figlie d'Africa mutilate. Indagini
epidemiologiche sull'escissione in Italia, Torino, 1998, 13.
[28] J. Black, Debelle, Female genital
mutilation in
[29] In
Gazz. Uff. 18 gennaio 2006 n. 14, nonché in Guida al dir., 5,
2006, pp. 16 ss., con commenti di G.
Amato, L'introduzione in Italia di un apposito reato è un'innovazione
opportuna ma perfettibile; Id.,
Un'aggravante la minore età della vittima; di
[30] Si tratta di un organo
istituito con d.P.C.M. 28 marzo
[31] Qui
basti ricordare la ris. n. 7 – 00842 della Commissione parlamentare per
l'infanzia, di iniziativa degli On.li Pozza Tasca e Valpiana, adottata nella
XIII Legislatura, e riguardante le mutilazioni genitali femminili, che
impegnava il Governo su vari fronti: dal predisporre un'indagine sul fenomeno
al promuovere una campagna di informazione, sensibilizzazione e prevenzione
dello stesso, anche attraverso l'istituzione di un numero verde, nei confronti
dei cittadini extracomunitari; dal garantire l'assistenza psicologica e tutela
giuridica delle bambine che sono state o potrebbero essere oggetto di tali
pratiche e sostenere le iniziative delle Organizzazioni non governative che si
adoperano in Africa ed in Europa per lo sradicamento delle mutilazioni.
Il testo è sul sito web http://194.184.199.201/_bicamerali/infanzia/Risoluzioni/infibulazione.htm.
[32] Gius.. Amato, L'introduzione,
cit., p. 24.
[33] ibidem
[34] R. Botta, op. cit., p. 403.
[35] A. Aldeeb Abu-Sahlieh, , Mutiler au
nom de Yahvé ou D'Allah. Légitimation de la circoncision masculine et féminine, in /www.lpj.org/Nonviolence/Sami/articles/frn-articles/circumcision.html#_ftnref176
[36] In Italia, il Patto internazionale
relativo ai diritti economici sociali e culturali e il Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, hanno avuto esecuzione con l. 25 ottobre
1977, n. 881.
[37] Questa Convenzione segue alla Dichiarazione
sull'eliminazione di tutte le forme di violenza contro le donne del 1967. Oltre
trenta organismi delle N.U. operano a più livelli, ricerca, formazione,
intervento governativo, ecc., per realizzare i principi della Convenzione e
della Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione
contro le donne..
[38] Diverse strutture e substrutture
delle N.U. si occupano da tempo di questo tema; solo per fare qualche esempio,
[39] In Italia,
[40] Resa esecutiva in Italia con l. 28 agosto
1997, n. 302.
[41] Starace, Linee di sviluppo del
diritto internazionale in materia di protezione delle minoranze, in Minoranze,
laicità, fattore religioso. Studi di diritto internazionale e di diritto
ecclesiastico comparato a cura di R. Coppola e L. Troccoli, Bari
1997, 10.
[42] Sul desiderio di alcuni immigrati, di
continuare a vivere secondo le proprie regole all'interno dei Paesi di destinazione,
regole talora fortemente contrastanti con il diritto degli Stati europei Musselli
, Islam e ordinamento italiano: riflessioni per un primo approccio al
problema, in Il diritto ecclesiastico, 1992, I, 629; Botta, Manuale
di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, Torino, 1998,
35. Dello stesso autore sempre su queste tematiche, Appartenenza
confessionale e libertà individuali,in Quaderni di diritto e politica
ecclesiastica, 2000, n. 1, 131-156.
[43] Si è osservato che fra le
conseguenze del formarsi di una società multietnica, vi è quella dello
sgretolamento dei valori etici tradizionalmente comuni in una determinata
società, insieme all'affermarsi di una pluralità di tavole di valori diverse e
non di rado opposte fra loro. L. PALAZZANI, Laicità e bioetica, in G.
DELLA TORRE (a cura di), Lessico della laicità, Edizioni Studium, Roma
2007, 286. Questo non vuol dire che l'affermarsi di nuovi valori e l'evoluzione
del momento interiore dell'uomo verso altre idealità sia una circostanza
negativa, al contrario, ma non può nemmeno significare che ad un dato
comportamento importato in uno Stato, che si pone in evidente e stridente
contrasto con le leggi di questo, possa riconoscersi la qualifica di valore.
[44] ONIDA F. Il problema dei valori nello Stato laico, in M.
Tedeschi (a cura di), Il principio di laicità nello Stato democratico, Soveria
Mannelli, 1996, 93